Un viaggio nel tempo sulle tracce dei piatti della tradizione italiana finiti nel dimenticatoio. A raccoglierli ci ha pensato lo storico Alberto Capatti, nel suo ultimo libro “Piccolo atlante dei cibi perduti”, edito da Slow Food
Sarebbe bello avere a disposizione un mappamondo da far ruotare su sé stesso per osservare da vicino le ricette tipiche di ogni regione. Se lo si potesse consultare anche nella sua dimensione temporale, sfogliando i decenni come se fossero delle pagine, avremmo a disposizione un catalogo di antiquariato gastronomico capace di conservare la memoria di tutte quelle piccole tradizioni, gesti e ingredienti profondamente radicati nelle abitudini culturali di un Paese. Una macchina del tempo per osservare da vicino e scoprire le radici di quelle materie prime che oggi (sempre meno) troviamo sulle nostre tavole. Qualcuno, a dire il vero, un “Piccolo atlante dei cibi perduti” ha iniziato a costruirlo, dando il via a un nuovo capitolo di restauro della Cucina Italiana. Esperto di storia dell’alimentazione, nel volume edito da Slow Food, Alberto Capatti traccia una linea precisa sull’evoluzione e sull’abbandono di ricette e pratiche gastronomiche, affidandosi a testi che, a loro volta, raccolgono appunti ritrovati e stralci di volumi pubblicati decenni fa.
L’albero genealogico della cucina italiana
Nel “Piccolo atlante dei cibi perduti”, Capatti cita come punto di partenza delle sue ricerche alcuni dei testi più rappresentativi di “antiquariato gastronomico”. Tra i primi a indagare in modo scientifico e sistematico le origini di alcuni piatti tipici del Belpaese è stato Luigi Veronelli, co-autore con Luigi Carnacina di diversi libri sul tema. Proprio lui, prima di elaborare la sua personale visione della Cucina Italiana, ha ritenuto fondamentale ricostruirne il passato (sia remoto che prossimo) con “Alla ricerca dei cibi perduti”. Pubblicato nel 1966, il libro racconta di creste di pollo farcite, salami d’oca e rane: ingredienti tipici di una cultura popolare che va pian piano perdendosi con l’avanzare del boom economico. Ma l’albero genealogico della cucina italiana si può disegnare solo con un meticoloso lavoro di recupero teorico e culturale, come quello di Maria Attilia Fabbri Dall’Oglio con “I sapori perduti” del 1993 e il più recente “I piatti dimenticati” di Rita Monastero del 2017. Un vero e proprio romanzo da cui emergono la rosamada e il milanese pan tramvai, consumato dagli operai milanesi e dato come “resto” acquistando i biglietti dei mezzi pubblici. Prezioso per comprendere le radici di numerose pratiche culinarie è anche il libro “Le ricette dimenticate della cucina regionale italiana” scritto da Samuele Bovini nel 2018, facendo riferimento a 400 preparazioni da non dimenticare. Così il “Piccolo atlante dei cibi perduti” di Capatti, condensa spunti e li rielabora per offrire agli appassionati di gastronomia un punto di osservazione privilegiato sulla memoria collettiva del cibo. Qui abbiamo raccolto cinque delle più interessanti ricette perdute, per farvi venire l’acquolina in bocca (o forse no).
Banane alla moda hippy
Le banane si trovano nella cucina italiana già dai primi anni del secolo scorso, tanto che ne parla anche Pellegrino Artusi. Quelle “alla moda hippy” (non hippie) si trovano nell’enciclopedia “Cenare con gli amici” di Savina Roggero datata 1973, tra i piatti preferiti dei “figli dei fiori”. Per prepararle si tagliavano in due le banane per lungo, cospargendole con zucchero, cannella, vanillina, limone, uva sultanina e zest d’arancia. Il passaggio finale è mezzo bicchiere di rum bianco per appiccare il fuoco al rum e godere di uno spettacolo ai limiti del “pirotecnico”.
Cappello della duchessa
La moda si è fatta sentire anche in cucina, influenzando con forme e colori alcune preparazioni tradizionali. Come Il Cappello della Duchessa, dolce che Capatti ha ritrovato nel libro “Le ricette di nonna Roberta” preparato con cacao fondente, zucchero, canditi, mandorle, burro e una base che ricorda quella del tiramisù. Ma sono solamente i savoiardi bagnati con caffè e liquore dolce che, appoggiati a raggera sul piatto, ricordano un elegante copricapo.
Neve col fango
Capatti cita anche questa ricetta trovata nel testo di Fiora Palazzini datato 1973. Si tratta di un dolce che richiama il candore dei fiocchi di neve che si sciolgono e lasciano il posto al colore caldo della terra. In sostanza, sono degli gnocchi di albume e zucchero cotti nel latte bollente, ricoperti da una densa crema al cioccolato, da condire a piacere con un cucchiaino di marmellata.
Risticiada
Abbiamo perso anche il pollo? Con questa domanda Capatti racconta del “pollo dei poveri” un tempo appannaggio delle famiglie italiane che, degli animali da cortile, non buttavano via nulla. Come le “entragna” ovvero viscere, intestino e parti considerate scadenti, che venivano rosolate con cipolla e un grasso come olio o lardo. Nella zona di Lecco c’era poi la risticiada (da non confondere con la rusticiada brianzola) che all’entragna aggiungeva anche il pomodoro e talvolta delle patate.
Fettuccine Alfredo
Quelle che oggi si trovano in ogni angolo del mondo, entrate in un calderone di ricette senza una precisa identità, sono ben lontane dalle originali Fettucine Alfredo. Parliamo di quelle nate nel 1914 in via della Scrofa a Roma, dove il gestore di un’osteria realizzava a mano la pasta e la condiva col parmigiano e il burro grazie ad abili e rapidi movimenti di fronte al cliente. Oggi si chiamerebbe show cooking, ma negli anni ’20 era una forma d’arte gastronomica che è valsa al signor Alfredo una standing ovation (con tanto di dedica scritta), da parte di due grandi attori del cinema muto: Mary Pickford e Douglas Fairbanks. Fonte: Linkista, Gastronomika, Penelope Vaglini, 17.06.2022