Intervista al fondatore di Slow Food: “Se noi non approfittiamo in questo momento per rigenerare la produzione siamo destinati ad andare verso il baratro, verso un disastro ambientale che può diventare irreversibile. Il verbo rigenerare è l’elemento distintivo di questa fase storica”
© AGF – Carlo Petrini
AGI – “Le ricadute della mancata esportazione del grano ucraino a causa della guerra non si ripercuotono solo a casa nostra, ma in maniera molto, molto più forte in Africa, in paesi come i Libano che sono molto dipendenti da queste quantità. Per noi c’è un riflesso indubbio, ma va sottolineato che il discorso fondamentale della sovranità alimentare nella sostanza non è passato in molte parti del mondo, compresa la nostra Italia“. Lo dice all’AGI Carlo Petrini, gran patron di Slow Food, fondatore anche dell’Università degli Studi di Scienze gastronomiche di Pollenzo, in provincia di Cuneo.
“Rispetto al grano – spiega a proposito degli aumenti dei prezzi dovuti alla guerra – fino a cinque-sei anni fa il suo prezzo era uguale a quello che veniva pagato 35 anni fa. Sarebbe come dire che noi pagavamo il grano ai contadini come se a un dipendente dessimo lo stipendio di 35 anni fa, questo è il paragone appropriato. Ragion per cui intere aree che da sempre erano caratterizzate da una cerealicoltura forte le abbiamo abbandonate e si sono scelte colture più redditizie, alcune delle quali sono diventate addirittura invasive. Pensiamo a cosa significa oggi la coltivazione del nocciolo in aree come il viterbese o nel mio Piemonte: è diventata una monocultura impressionante. Ma se continua questa situazione di tensione andremo a pagare il grano molto e molto più caro di quello che avremmo dovuto pagare i contadini di quando il grano lo producevamo noi. Motivo per cui in queste situazioni fermarsi a riflettere su una pianificazione colturale che un paese civile dovrebbe avere è molto, molto importante“.
Aggiunge il fondatore di Slow Food: “È venuto fuori in maniera forte per quel che riguarda le risorse energetiche. Una situazione che ci mette in grande imbarazzo, perché in fin dei conti pagare il gas alla Russia significa pagare anche la guerra di Putin. Perché mai abbiamo aspettato così tanto a fare andare avanti un processo intensivo di rinnovabili intralciandolo con una serie di difficoltà sui permessi? Il paradosso è che adesso molti spingono per ritornare al carbone o per ripensare al nucleare, niente di più assurdo. Lo stesso vale per gli alimenti. Aspettare di scegliere di rafforzare la nostra sovranità alimentare è sbagliato, non possiamo più pensare di dipendere da altre realtà, oggi dalla Russia domani chissà, perché alla prima situazione drammatica come quella che si è verificata adesso rimaniamo a terra. È opportuno rafforzare questo aspetto prima di tutto. Per esempio, noi siamo in attesa da anni di una legge sui suoli che non si realizza, e i suoli continuano ad essere depauperati, in particolare il suolo agricolo. Non possiamo più permetterci questo lusso“.
Il presidente di Confagricoltura, Giansanti, ha indicato tre soluzioni percorribili: la cancellazione dei limiti alla coltivazione dei terreni italiani; un piano europeo per monitorare le scorte dei cereali; un piano italiano per una maggiore coltivazione di grano tenero, mais e semi oleosi, la cui carenza è stata evidenziata dallo stop alle importazioni da Russia e Ucraina. Lei Petrini, cosa ne pensa?
“Auspicare una pianificazione non è sbagliato. Dipende su quali interessi noi la realizziamo. Siamo in un momento in cui abbiamo bisogno di far coincidere esigenze dei produttori con esigenze dei cittadini. Quindi la pianificazione è un discorso che riguarda tutti e si deve realizzare in maniera interdisciplinare, coinvolgendo tutti, ma una pianificazione corretta sarebbe auspicabile“.
C’è però il rischio che si vada verso un’autarchia produttiva?
“Il concetto di sovranità alimentare è un concetto non necessariamente autarchico ma assolutamente di sviluppo armonico delle risorse per rafforzare anche l’esistenza di un’economia locale. Non possiamo pensare che tutta l’economia sia una economia globalizzata, dobbiamo avere la coscienza che dobbiamo rafforzare l’economia locale perché nell’economia locale si dimostra la partecipazione di tutti i cittadini ma anche la difesa dei suoli, del paesaggio, della nostra memoria storica. Non è un elemento strettamente autarchico, è un elemento di rispetto verso l’economia locale“.
Sovranità e autosufficienza alimentare coincidono o sono due concetti antitetici?
“Sono concetti diversi. Sono rari i paesi che hanno un’autonomia totale rispetto all’alimentazione, molto rari. Però svilupparla in maniera armonica, a mio avviso è possibile. E aumentare, ripeto, la componente locale perché ogni paese non può fare a meno di avere un’attenzione verso la sovranità alimentare“.
Davanti a questa crisi dei prezzi, degli approvvigionamenti, una soluzione potrebbe essere una intensificazione del biologico? Quantomeno un obiettivo?
“Se noi non approfittiamo in questo momento per rigenerare la produzione siamo destinati ad andare verso il baratro, verso un disastro ambientale che può diventare irreversibile. Il verbo rigenerare è l’elemento distintivo di questa fase storica. Quindi non solo il biologico, ma anche la rotazione delle colture, una manutenzione dei territori, garantite il corso delle acque, ridurre gli impatti delle piogge estreme, è un’attenzione che noi dobbiamo avere a prescindere. Tuttavia, mai come in questo momento il biologico è una pratica che dobbiamo implementare e intensificare. E queste tematiche non possono rimanere esclusive rispetto ai produttori, loro sono quelli che in prima persona le devono favorire ma le devono condividere tutta la cittadinanza“.
Cosa auspica in questa situazione rispetto alla questione del prezzo del grano?
“Qui si tratta di ricostruire un’economia, non è così automatico che un Paese così messo in ginocchio ritorni a una produzione sufficiente. La ricostruzione avrà un prezzo grave e nello stesso tempo nella ricostruzione c’è anche quello di valorizzare il tesoro, il patrimonio che queste terre hanno. Quindi auspico che, fermata questa follia e avviato un processo di ricostruzione, comunque questa produzione ritorni ad essere significativa a beneficio anche di altre realtà. Ma ogni Paese, va detto, deve creare le condizioni per non essere troppo dipendente dalle derrate alimentari rispetto ad altri“.
Aggiunge Petrini: “Vorrei esser chiaro: nel nostro Paese abbiamo un 38% di spreco alimentare, ciò significa che non solo buttiamo via della merce ma che occupiamo dei suoli a livello agricolo che non servono a nulla perché la produzione non è utilizzata, così facciamo uso dell’acqua per irrorarli inutilmente. È tutto uno spreco enorme. Il primo campo da arare è la sua riduzione. Qui c’è anche il riconoscimento di un prezzo giusto e una scelta di pianificazione che paghi il giusto i contadini e che li invogli a pratiche virtuose”.