Zero cultura, zero sostenibilità, zero rispetto, mediocre qualità media. Svalutazione sotto ogni aspetto: dagli stipendi dei baristi al prezzo della tazzina che dovrebbe costare almeno il doppio. Però siamo convinti di bere il miglior caffè al mondo…
DAVVERO IL CAFFÉ ITALIANO E’ IL MIGLIORE DEL MONDO? (NO!)
Una comunicazione errata e in cattiva fede, una retorica superficiale, elementi di goffo sciovinismo, forme passivo-aggressive di machismo ci hanno convinti di consumare il miglior caffè del mondo. Da Napoli a Trieste siamo persuasi che il nostro espresso sia buono, fatto come si deve, ortodosso. Mentre quello di tutti gli altri paesi che ci circondano, dalla Francia alla Germania passando dal Regno Unito è una brodaglia imbevibile. Da prendere in giro stile tifo calcistico
Non siamo nazionalisti in nulla, sconosciamo le vere peculiarità, unicità, storia, eccellenze del nostro paese ma su determinate merceologie alimentari (pizza, pasta asciutta e appunto il povero caffè) diventiamo alfieri della purezza della nazione. E manco a dire che la buttiamo sulla cultura considerato che al caffè (e ai caffè, intesi come locali) il mondo intellettuale italiano deve moltissimo. Macché: in Italia siamo proprio convinti che la tazzina di caffè nostrana sia davvero il meglio quanto a sapore e profumo. Peccato che per i motivi che andremo a sviscerare, beviamo tra i caffè più mediocri d’occidente.
Questo malinteso ha spiegazioni culturali, sociali e antropologiche nelle quali non entreremo, ci limiteremo a spiegare però che gli elementi per giustificare questo senso di superiorità semplicemente non esistono. Anzi, proprio a cagione di questa spocchia in Italia si beve attualmente il peggior caffè del mondo. Il motivo è che questo atteggiamento dei consumatori (orgoglioso ma al contempo impreparato, ignorante, miope) viene volentieri cavalcato dalla filiera per massimizzare i margini di guadagno a detrimento della qualità. Consumatori che comprano prodotti scadenti e sono pure contenti, nessuna industria chiederebbe di meglio…
Il caffè, insomma, è il più grande equivoco, il più clamoroso malinteso gastronomico italiano. Siamo avvinghiati alle nostre certezze, ma la verità è l’esatto opposto. E continuiamo a scambiare i difetti del prodotto per pregi.
Qualche esempio? Con automatismo quotidiano zuccheriamo il caffè pensando la cosa sia normale, ma una bevanda che per essere bevibile ha bisogno di edulcoranti è una bevanda che ha dei problemi e che ci crea dei problemi costringendoci ad assimilare etti di dannoso saccarosio ogni mese. Siamo convinti che il colore del chicco di caffè sia nero, come quello che vediamo nelle campane trasparenti al bar, mentre la tostatura ottimale è marroncino tenue: è nero perché abbrustolendolo si eliminano tutti i difetti (e i pregi) appiattendo il sapore a quel caratteristico aroma di carbone. Tostando il caffè in quel modo i torrefattori sono così nelle condizioni di comprare partite di prodotto scadente, fallato, acerbo. Spuntando prezzi bassissimi e massimizzando i margini. Siamo convinti che il caffè debba costare 0,80 centesimi, al massimo un euro. Se il prezzo sale gridiamo al furto e cambiamo bar. Non ci rendiamo conto che ogni caffè sottoprezzo (sotto i 2 euro è sempre sottoprezzo, non a caso in tutto il resto del mondo il corrispettivo quello è) genera sfruttamento, lavoro nero, sofferenza in tutta la filiera, dalla piantagione fino al bar. Al nostro bancone di fiducia una tazzina può venire via a pochi centesimi solo se dietro c’è un barista sottopagato, mai formato, assunto al nero, sfruttato. E così consideriamo inaccettabile spendere il giusto per un caffè, ma poi giriamo l’angolo e andiamo a manifestare a favore della sostenibilità e dei diritti…
Altri paradossi? Siamo convinti che il caffè faccia male. Ma il caffè è un semplice frutto tropicale, come può “far male”? La caffeina agisce sul sistema nervoso, è vero, ma il tenore di caffeina è alto se il caffè proviene da una filiera agricola non idonea. La caffeina è una reazione dell’alberello del caffè contro parassiti e altre anomalie. Se dunque il caffè viene piantato e allevato in condizioni ottimali di caffeina ne produce una quantità normale. Sulla caffeina poi i luoghi comuni si sprecano, come quello che vuole il caffè ristretto più ‘forte’ di uno lungo: ma la caffeina è solubile nell’acqua, quindi un caffè filtro ha più caffeina di un espresso che ha a sua volta più caffeina di un ristretto. Insomma, un groviglio di false credenze, superstizioni e malintesi che si ripetono ogni giorno per milioni di volte e impediscono a questa merceologia di evolvere come meriterebbe.
E poi c’è il gusto. In Italia abbiamo la certezza che la tazzina di caffè abbia quel sapore lì. Proprio quello lì: di carbone. Non è così: il sapore del caffè è altra cosa. Alle volte si avvicina ad una densa spremuta di frutti rossi, a volte al sentore pungente degli agrumi, talvolta addirittura ai profumi fermentati del vino o certe tipologie intense di the. Quella bevanda che abbiamo banalizzato e trasformato in una sorta di medicina da trangugiare velocemente in piedi, non è più caffè: è una estrazione di chicchi bruciati, carbonizzati da un trattamento dozzinale. Ovvio che poi “il caffè fa male”…
COME FAR USCIRE IL CAFFÉ DALLA BANALIZZAZIONE?
Ovviamente non tutte le tazzine sono così. Ci sono dei bar che cercano di lavorare con un pizzico di attenzione in più, ci sono tostatori più attenti che selezionano la materia prima, ci sono perfino grandi torrefazioni industriali che hanno annusato l’aria e stanno debuttando nell’universo del caffè sostenibile e di ricerca.
La prima resistenza viene però dalla clientela che negli anni (il rito del caffè espresso al bar è relativamente recente) si è assuefatta. Tuttavia altre merceologie ci raccontano che atteggiamenti conservatori in ambiti che sembravano immutabili possono modificarsi rapidamente. E’ avvenuto col vino a partire dagli anni Ottanta, poi con la birra e il boom delle artigianali, infine col pane da un lustro a questa parte. Anche l’olio ci sta provando così come l’aceto. E pensate alla pizza: fino a vent’anni fa una pizza era una pizza, ora sappiamo vita morte e miracoli del lievito e ogni dettaglio sul mugnaio che si è occupato della farina… Tutti prodotti che erano banalizzati all’inverosimile e che sono in via di rinascita all’insegna di una nuova consapevolezza e attenzione da parte di chi produce, compra, consuma.
Il caffè riuscirà a prendere lo stesso sentiero? Riuscirà a conquistare la dignità che oggi non ha nei consumi domestici e in quelli fuori casa? Per provare a rispondere alla domanda abbiamo coinvolto alcuni tra i più importanti esperti del settore in Italia: torrefattori, baristi, formatori, imprenditori, cuochi. Fanno parte a vario titolo di quella che nel mondo è chiamata la “Terza Ondata” del caffè, il movimento quasi ventennale che punta a togliere questo alimento dal cono di banalità in cui è precipitato. Sono gli alfieri dello “specialty coffee”, un modo completamente diverso di vedere il caffè e l’universo che gli gira attorno. A Loro abbiamo chiesto un parere sulle responsabilità di questa situazione e idee su come si possa uscirne.
IL PARERE DI ANDREJ GODINA
Esperto di caffè, autore di numerosi libri, formatore
Uno dei motivi per cui il settore è rimasto indietro è che le torrefazioni ad un certo punto, tra prestiti e comodati d’uso di macchinari, sono diventate delle società finanziarie che guadagnano più dagli interessi che dal prodotto. E dunque il prodotto conta meno: conta solo il margine di guadagno. Il caffè è una pura commodity. Incredibile anche l’omogeneità del prezzo della tazza. Miscele scarse e caffè di buona qualità 100% arabica alla fine costano pressoché la stessa cifra. Sarebbe possibile nel vino avere calici tutti a prezzo omologato indipendentemente dalla provenienza? Il prezzo della tazzina va differenziato, questo servirà a comunicare al consumatore che esistono delle articolazioni, che esistono alcuni caffè che sono specialties e altri che non lo sono e costano meno. E infine una nota sui baristi: finché saranno sottopagati e non formati non se ne uscirà. Spesso chiedo al barista la marca di caffè che sta servendo: neppure quella conosce, figuriamoci il resto. Tra l’altro rispetto ad altre filiere, il barista è strategico: nella filiera del vino il sommelier stappa e serve un prodotto preparato da altri, idem con olio, il cioccolato. Nella filiera del caffè l’ultimo protagonista della filiera ha lui il compito di preparare e trasformare. Dunque ha il massimo della responsabilità e il minimo della responsabilizzazione: questo ruolo si deve trasformare radicalmente.
IL PARERE DI DARIO FOCIANI
Barista e torrefattore a Roma con Faro
Non dimentichiamoci che c’è stata una grande disinformazione diffusa. Che ha permesso di fare marginalità di guadagno clamorose alle torrefazioni. E così abbiamo infilato nella testa delle persone il fatto che il caffè è un prodotto semplice, banale; quindi chi apre una caffetteria di ricerca non riesce a convincere i consumatori che la tazzina non si può pagare un solo euro e il break even diventa un miraggio. Questi prezzi generano sfruttamento. E, attenzione, sfruttamento non soltanto agricolo nei paesi in via di sviluppo: sfruttamento anche di chi sta al bancone. E se per miracolo tutti sono messi in regola, quel bar avrà costi fissi così alti che non potrà andare a ricercare la qualità.
Il caffè sconta un consumo “istantaneo”, che dura pochi secondi, richiederebbe molta attenzione ma gliene viene dedicata pochissima e per un intervallo di tempo minimo. Così come viene dedicata poca attenzione in generale alla colazione. Un pasto bistrattato che assomma mediocrità a mediocrità: riflettiamo sulla qualità media di cornetti e brioche. Non aiuta, infine, la nostra dieta mediterranea che non prevede tanti sapori acidi a differenza del nord Europa e quindi ci fa considerare estranei i profumi dei caffè più ricercati.
Una proposta? Le associazioni che si dedicano al caffè specialty si occupino un po’ meno di gare e competizioni e un po’ più di formare il consumatore medio!
Barista e torrefattore a Firenze con Ditta Artigianale
Io credo davvero che lo specialty sia il futuro del caffè e dell’industria del caffè. Dietro a questa parola non c’è solo un prodotto di qualità, ma c’è sostenibilità. Lo specialty è l’unico prodotto che può garantire evoluzione ai popoli dei paesi tropicali dove si coltiva caffè. Lo specialty è l’unico comparto dell’industria del caffè che non genera povertà nella filiera. Come si fa a pensare che ogni tazzina che serviamo generi povertà? E poi stare nell’ambito dello specialty permette di riconoscere la vera professionalità del barista e una nuova rinascita delle caffetterie. Puntare sullo specialty significa ringiovanimento di tutta la filiera anche per quanto riguarda l’ospitalità a 360 gradi. Chi propone specialty ha necessariamente attenzione maniacale in tutto: dalla musica alle luci, dal design al benessere complessivo dell’ospite. Cambia proprio il paradigma di un settore che è abituato a lavorare solo sulla quantità e mai sulla qualità.
Come si fa? Bisogna dar valore alla tazzina e modificare l’attitudine di come si è bevuto in caffè fin’ora ovvero come fosse un farmaco. Comunicando con i consumatori e spiegandogli che bere tazzine di caffè a 1 euro è, semplicemente, uno scandalo.
IL PARERE DI GIANNI TRATZI
Consulente e formatore a Milano con Mezzatazza
Il barista – mestiere relativamente giovane – è purtroppo ancora un mero macchinista. E’ addestrato esclusivamente ad essere veloce e a ripetere meccanismi, non è invece formato sul prodotto e questo ha delle conseguenze: vedendo comportamenti automatici, privi di narrazione, i consumatori considerano il caffè come qualcosa di poco importante, una cosa da buttar giù senza darci peso. Non hai una soglia d’attenzione adeguata quando bevi un caffè come invece hai quando bevi un vino. Un’altra responsabilità? Riguarda le torrefazioni che negli anni hanno nascosto le origini del caffè, hanno impedito che i clienti associassero un sapore ad un terroir e ad una provenienza: tutto nascosto dietro al loro brand e alle loro scelte d’acquisto della materia prima. C’è anche da dire che non abbiamo una regolamentazione adeguata a rendere virtuosi per i torrefattori gli acquisti di materia prima. Ora però grazie alla tecnologia questo gioco di celare tutto regge meno: la filiera era sconosciuta, oggi mi basta digitare “coffee plantation” su Google e posso documentarmi, vedere video, approfondire.
IL PARERE DI MASSIMO BONINI
Torrefattore a San Secondo Parmense con Lady Cafè
C’è stata un’evoluzione incredibile negli ultimi 15 anni, dunque sono ottimista. Ora secondo me ci vuole una svolta e sono convinto che sia legata al mondo della ristorazione. I ristoranti sono gli unici che posso farci fare un salto in avanti. Un esempio? Non faccio nomi, ma cinque dei sette ristoranti con Tre Stelle in Italia utilizzano caffè mediocre. Ma se non sono loro ad adeguare il livello del caffè al resto dell’offerta quando mai saremo credibili a parlare di caffè di ricerca? Ci vuole integrità: se tu vieni da me in torrefazione e prima del caffè ti offro un bicchiere di vino, te lo offro di una qualità paragonabile ai miei caffè. Basterebbe che i ristoratori – tutti i ristoratori – curassero il caffè come curano la ricerca delle loro materie prime e l’olio, il pane o ancora di più il vino per determinare un cambiamento radicale e rapido. E infine c’è il fattore prezzo: smettiamola di bere caffè “per esigenza”, iniziamo piuttosto a bere il caffè “per esperienza”. Se fai un’esperienza coinvolgente, poi non hai difficoltà a pagarla un po’ di più.
IL PARERE DI CHIARA PAVAN
Chef assieme a Francesco Brutto a Mazzorbo (Venezia) con Venissa
Noi ormai serviamo solo specialty coffee al ristorante. Perché? Perché è una scelta di coerenza rispetto a tutto il resto del nostro progetto gastronomico. In primo luogo perché significa scegliere dei fornitori piccoli, sostenibili, che operano in maniera corretta coi loro lavoratori e con l’ambiente. La nostra filosofia è tutta su sostenibilità e ambiente, come possiamo dunque fare scelte diverse? Come possiamo servirci da grandi torrefazioni rischiando di portarci in casa chi adopera le leve dei prezzi al ribasso e dello sfruttamento? Insomma ci è parsa una scelta più che ovvia e anzi consideriamo incredibile che il mondo della ristorazione fatichi così tanto ad appassionarsi ad un ambito che coinvolge quasi come il vino e permette di proporre riflessioni al cliente che vanno di pari passo alla cucina. Ecco perché proponiamo diverse varietà, diversi terroir, micro torrefazioni dall’Italia e dal mondo. Oltretutto i vari metodi di estrazione (V60, aeropress, french press, espresso) in sala risultano assai scenografici, significa che i clienti si interessano, approfondiscono e noi facciamo cultura ogni giorno. Reazioni? Ottime! Appena estraiamo un caffè filtro in V60 al tavolo, tutti i tavoli circostanti chiedono informazioni e ordinano anche loro.
PASQUALE POLITO
Barista e torrefattore (oltre che fornaio) a Bologna con Brisa
Mi occupo di pane e di caffè. Il caffè è qualcosa di ancor più quotidiano del pane e le cose quotidiane rischiano di diventare “normali”: per la qualità è un rischio. Anche il vino quando era bevuto quotidianamente a casa per accompagnare pranzi e cene faticava a spiccare il volo in termini di qualità. La tazzina di caffè è uno di quei baluardi di normalità che si frappongono al cambiamento. Sta a noi creare delle fratture aprendo spazi dove si possa infilare la curva degli innovatori che sono tanti perché il dibattito sul mondo del caffè si sta creando ed è in crescita. E poi c’è la strada inevitabile della conoscenza profonda: corsi, formazione, viaggi in piantagione, cooperazione continua con la concorrenza. Resta il deficit di comunicazione: dobbiamo essere degli instancabili comunicatori per far veicolare questa passione (e questa problematica) con la chiave ludico della leggerezza e magari dello scherzo, senza appesantire ma facendo capire ai cittadini che c’è uno scoglio da superare e una sfida da cogliere per migliorare. Non so voi, ma io non credo che ci sia nessuno che berrebbe un caffè spensierato consapevole delle ingiustizie sociali che ci sono dietro quella tazzina… fonte: GUSTO, Massimiliano Tonelli, 01.01.2022