Facile, gli Stati Uniti. Anche se si pensa troppo spesso ai paesi emergenti, in particolare della Cina, quando si parla dei paesi che emettono più CO2 in atmosfera. Corretto, ma parziale. Perché la storia delle emissioni fa la differenza.
Brooklyn Bridge © Victor J. Blue/Getty Images
Stiamo vivendo giorni straordinari, giorni che non ritorneranno, giorni che – se sfruttati al meglio – ci faranno sentire persone migliori, come la generazione che è riuscita a salvare il Pianeta dalla catastrofe climatica. In alternativa, saremo solo coloro che “si sono scavati la fossa da soli”, per usare le parole di António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, intervenuto il primo novembre alla Cop26, la conferenza sul clima di Glasgow che si tiene dal 31 ottobre al 12 novembre.
Guterres ha anche sottolineato come “i sei anni trascorsi dall’adozione dell’Accordo di Parigi sul clima siano stati i più caldi di sempre” e in questo “i paesi del G20 hanno particolari responsabilità visto che rappresentano circa l’80 per cento delle emissioni”. Ma perché si dice sempre che i paesi del G20, in particolare i paesi industrializzati, debbano essere i primi ad agire per tagliare le emissioni di gas serra, come la CO2 e il metano? Semplice, perché l’aumento della temperatura media globale non si calcola sulla base delle emissioni correnti, ma di quelle storiche, accumulate.
Discorso di António Guterres alla Cop 26 © Jeff J Mitchell/Getty Images
Già, perché i gas serra permangono in atmosfera per lungo tempo e questo comporta che i loro effetti si palesino nel corso di anni, decenni. L’aumento attuale di temperatura, pari a circa 1,2 gradi, è frutto delle emissioni prodotte a partire dal secolo scorso, in particolare dagli Stati Uniti. E, solo in seconda battuta, dalla Cina.
A rendere il concetto di giustizia climatica ancora più chiaro ed evidente è questo video che molti lettori avranno già visto perché iscritti alla newsletter il Climatariano (per chi non lo fosse può farlo qui).
La responsabilità storica dei cambiamenti climatici è al centro del dibattito sulla giustizia climatica. Si intitola così l’analisi realizzata da Carbon Brief, il sito guidato da Leo Hickman che si occupa di clima da un punto di vista scientifico per supportare l’adozione di policy all’altezza. L’analisi in questione è stata realizzata dal vicedirettore Simon Evans il quale mette per la prima volta insieme, integra le emissioni di gas serra causate dall’utilizzo dei combustibili fossili e dalla produzione di cemento e quelle causate dallo sfruttamento del suolo (cambiandone destinazione d’uso) e delle foreste (abbattendole).
Quanta CO2 ci rimane a disposizione
Dall’inizio della rivoluzione industriale, nel 1850, l’umanità ha “sparato” in atmosfera circa 2.500 miliardi di tonnellate (o gigatonnellate) di CO2. È così che siamo arrivati a un aumento della temperatura media globale superiore a un grado. E per rispettare la soglia degli 1,5 gradi “caldamente” suggeriti dalla comunità scientifica ci restano da gestire solo 500 miliardi di tonnellate di CO2. È il famoso carbon budget.
Secondo le previsioni attuali rischiamo di esaurirlo in una manciata di anni. Sette, se vogliamo avere i due terzi di probabilità di centrare l’obiettivo. Le probabilità scendono al 50 per cento se vogliamo stare larghi e darci un decennio a partire dal 2022.
Va tenuto a mente che per ogni mille gigatonnellate di gas serra che “pompiamo” in atmosfera corrisponde un aumento della temperatura media globale di 0,45 gradi secondo i calcoli dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici.
Le responsabilità della Cina
Dell’aumento che stiamo sperimentando oggi sono responsabili le emissioni che abbiamo accumulato in atmosfera nel corso degli anni. Per questo, anche se oggi la Cina rappresenta un quarto delle emissioni e anche se queste sono triplicate negli ultimi vent’anni, a livello storico il gigante asiatico rappresenta “solo” l’undici per cento delle emissioni totali, pari a un aumento di temperatura di circa 0,1 gradi. Una percentuale che si riduce di 1,1 (portando il totale a 9,9 per cento) se si considerano le emissioni causate da prodotti d’esportazione.
E quelle degli Stati Uniti
Una situazione opposta rispetto a quella degli Stati Uniti che, da soli, rappresentano il 20,3 per cento delle emissioni prodotte dal 1850 ad oggi, pari a 509 gigatonnellate e a un aumento della temperatura media di 0,2 gradi. La stessa cifra che ci rimane a disposizione per mantenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi. Non solo, se si considerano anche le emissioni d’importazione, cioè quelle causate dallo stile di vita dei cittadini statunitensi, ma prodotte all’estero, il primato negativo americano si consolida aumentando di un ulteriore 0,3 per cento (pari a 7,4 gigatonnellate).
Nella classifica dei peggiori, dopo Stati Uniti e Cina, troviamo Russia (responsabile del sette per cento delle emissioni complessive), poi Brasile (cinque per cento) e Indonesia (quattro per cento). Questi ultimi due stati, diversamente dagli altri che hanno bruciato combustibili fossili come se non ci fosse un domani, hanno contribuito soprattutto a causa della distruzione del loro patrimonio forestale.
Gli Stati Uniti rappresentano oltre il 20 per cento delle emissioni prodotte dal 1850 ad oggi © Ingimage
Seguono poi i primi paesi europei, Germania e Regno Unito, che per decenni sono stati il motore, anzi “la locomotiva” d’Europa e del mondo. Tra loro, l’India che basa le sue emissioni soprattutto sulla necessità di soddisfare una popolazione in costante crescita e che oggi conta 1,38 miliardi di abitanti.
Una menzione speciale va alla Germania
Una menzione speciale la merita proprio la Germania che, diversamente da tutti gli altri stati presenti nella top 10, ha emissioni negative per il segmento relativo allo sfruttamento del suolo e delle foreste. Cioè ha iniziato ad assorbire più CO2 di quanto facesse prima del 1850 grazie ad una politica di riforestazione. Ovviamente le sue emissioni e la sua posizione in classifica dipendono soprattutto da un settore industriale alimentato in larga parte dal carbone.
E l’Italia?
Il nostro paese è in sedicesima posizione nella classifica delle emissioni complessive con 25 gigatonnellate causate dall’utilizzo di combustibili fossili a cui vanno tolti 1,6 miliardi di tonnellate grazie a un aumento della capacità di stoccaggio della CO2, un po’ come la Germania.
Per far sì che i leader si sentano addosso la pressione necessaria a prendere decisioni che riguardano il futuro di tutti, i mezzi d’informazione, specialmente quelli “di massa”, hanno un ruolo fondamentale. Non a caso le attiviste per il clima Greta Thunberg e Vanessa Nakate hanno pubblicato sul Time una lettera aperta a tutti i giornalisti e agli editori per chiedere di dare il giusto spazio e la giusta enfasi alla narrazione della crisi climatica. A trattarla come una crisi. “Uno degli elementi essenziali di una democrazia sana è la libertà di stampa, in grado di informare i propri cittadini in modo oggettivo, sulle sfide che la nostra società si trova ad affrontare”. Qualcosa che speriamo di aver fatto con questo contributo. Fonte: LifeGATE, Tommaso Perrone, 02.11.2021