Allevamenti più etici: la Commissione europea presenterà una proposta di legge nel 2023, e dal 2027 dovrebbe partire il divieto. Il fondatore di Slow Food: “Rispettare e accompagnare i singoli produttori al cambiamento”
Dal 2027 le gabbie saranno vietate negli allevamenti, lo ha annunciato la Commissione Europea. Una decisione storica, risultato di un movimento di sensibilizzazione dal basso, creato da Cittadini Europei (Ice), partito nel 2018 con la petizione “End the Cage Age”, firmata da 1,4 milioni di cittadini europei, che ha costretto le istituzioni a prendersi carico del tema. La Commissione ha quindi dichiarato che presenterà per il 2023 una proposta di legge per tutelare varie specie di animali oggetto di allevamento intensivo, tra cui: galline, scrofe, vitelli, conigli, anatre e oche (oltre 300 milioni ogni anno in Ue), con il programma di metterle al bando nel 2027. Abbiamo chiesto a Carlo Petrini, ideatore e guida del movimento Slow Food, tra i principali promotori e firmatari della petizione, di commentare questa importante decisione e le sue conseguenze.
“Negli ultimi anni la sensibilità verso i temi etici legati al cibo è aumentata enormemente – racconta Carlo Petrini -. Questo grazie a milioni di giovani che in ogni parte del mondo premono affinché le cose cambino, garantendo all’umanità un maggior rispetto per gli ecosistemi e soprattutto un futuro. Dal mio punto di vista sono due gli elementi che hanno determinato questa svolta: il primo è la crescita della sensibilità umana nei confronti del benessere animale; rispetto alla mia giovinezza, l’elemento etico e l’empatia nei confronti delle altre specie che abitano il nostro pianeta hanno acquisito un peso importantissimo nel pensiero umano. L’altro elemento è la necessità per paesi come il nostro, di ridurre drasticamente il consumo di carne in maniera significativa, perché è assolutamente non sostenibile sia per quanto riguarda la salute che per ciò che concerne la gestione e la sopravvivenza degli ecosistemi”.
uardiamo anche dalla parte dei produttori e delle aziende: cosa comporterà questo cambiamento nella gestione degli allevamenti intensivi? Riusciranno le aziende a “convertirsi” in tempo?
“Non possiamo predire il futuro, ma certamente, orientarlo è possibile. Questa transizione deve avvenire rispettando e accompagnando i singoli produttori al cambiamento, nella certezza che la riconversione lenta verso produzioni più equilibrate, può avere anche una sua sostenibilità economica. Anzi, è ampiamente accertato e verificato che le forme di allevamento intensivo, proprie delle economie di larga scala, siano economicamente poco sostenibili per gli stessi produttori, ma facciano benissimo il gioco degli imprenditori/rivenditori, che hanno tutto l’interesse ad avere una materia prima dal prezzo più basso possibile, per aumentare le loro marginalità di guadagno nella vendita al consumatore finale. Al contrario, un produttore padrone della propria filiera, che produce una materia prima sana e valorizzata da un giusto prezzo che gli dà lui direttamente, è un produttore più forte, che può dialogare direttamente anche con il consumatore finale, instaurando relazioni virtuose che danno senso al suo ruolo nella società. Questo è un passaggio che richiede pazienza, creatività e la convinzione che la strada che si sta prendendo è l’unica che porta verso un futuro armonico e vivibile”.
Per lei, che ha dedicato la sua vita allo sviluppo e alla promozione di un’etica del cibo e nel cibo, lei che con Slow Food ha cambiato il modo di pensare al cibo e a tutto ciò che lo circonda, il 2027 sarà un grande traguardo o un importante punto di partenza?
“Da più parti si parla di questa parola magica “transizione ecologica”, una parola che in realtà identifica un arco di tempo, che sarà probabilmente lungo, durante il quale l’umanità sarà chiamata a cambiare radicalmente i propri modelli produttivi, sistemi di distribuzione, modo di viaggiare, stile di vita. Così come tre secoli fa la rivoluzione industriale stravolse tutti i parametri del nostro vivere civile, e tutto questo è durato fino a oggi. La transizione ecologica è indispensabile altrimenti l’umanità non avrà un futuro, ma dovrà avvenire gradualmente e nel rispetto delle esigenze di tutti. Guardo quindi al 2027 come un grande traguardo, per chi come me e come il movimento che rappresento, si batte da quasi quarant’anni per il cambiamento; in un’ottica più ampia, la decisione dell’Unione Europea, appare al contempo come un primo importante punto di partenza, perché sono tante le filiere produttive che devono essere messe in discussione, non solo quella della carne, ma anche quella ittica che si basa ormai totalmente sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse marine, quella vegetale che distrugge interi ecosistemi in nome delle monocolture intensive, e che dire della filiera del packaging: stiamo vivendo in un mare di plastica, grazie all’esasperazione di abitudini di consumo legate al concetto di mono-porzione e di mono-uso, che fanno il gioco dell’industria non certo del pianeta.
Da questo si capisce che alla base di questa transizione ecologica, c’è anche la necessità di cambiare non solo le filiere produttive, ma i nostri stessi comportamenti di consumo in un’ottica di contrazione e convergenza e lo si capisce bene analizzando i consumi di carne nel pianeta, dove abbiamo necessità di contrarre i 125 chili annui pro capite degli americani, e al contrario ridistribuire e far convergere lo spreco alimentare per compensare i 5 chili annui di ogni abitante dell’Africa sub sahariana. Noi in Italia oggi siamo a 95 chili, ma quando io ero bambino, negli anni ’50, gli italiani consumavano 40 chili di carne pro capite l’anno, e il CREA, (ex Istituto Nazionale della Nutrizione – ndr.) afferma che nella metà degli anni ’50 si colloca il periodo nel quale gli italiani hanno mangiato meglio in tutta la loro storia. Capiamo bene, quindi, che senza questo doppio passaggio – cambio di stili produttivi e cambio di stili di consumo – tutto quello che ci siamo detti è totalmente inutile”. Fonte: Gusto, Stefano Pesce, 16.07.2021