In Europa il biennio 2020-2021 avrebbe dovuto segnare una svolta nella lotta ai rifiuti derivati dal petrolio. Poi è arrivato il coronavirus: tra mascherine, guanti e imballaggi anti-contagio, il rischio di un passo indietro è sempre più concreto
Imballaggi Covid-19 – foto Pixabay
Originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
Abbassate sul mento o indossate correttamente, generosamente distribuite in scuole e luoghi di lavoro, vendute ovunque a prezzo calmierato, le mascherine sono ormai una presenza costante nella vita di miliardi di persone. Basta una folata di vento o una distrazione perché si disperdano nell’ ambiente, e già nei primi mesi di pandemia, quando per molti erano ancora introvabili, erano diventate un rifiuto abbastanza comune sulle spiagge di tutti gli oceani.
Ma i dispositivi di protezione – non solo mascherine, ma anche guanti, grembiuli, visiere – sono soltanto uno dei fattori che hanno fatto salire alle stelle il consumo di plastica in tempi di pandemia.
Abbassate sul mento o indossate correttamente, generosamente distribuite in scuole e luoghi di lavoro, vendute ovunque a prezzo calmierato, le mascherine sono ormai una presenza costante nella vita di miliardi di persone. Basta una folata di vento o una distrazione perché si disperdano nell’ ambiente, e già nei primi mesi di pandemia, quando per molti erano ancora introvabili, erano diventate un rifiuto abbastanza comune sulle spiagge di tutti gli oceani.
Ma i dispositivi di protezione – non solo mascherine, ma anche guanti, grembiuli, visiere – sono soltanto uno dei fattori che hanno fatto salire alle stelle il consumo di plastica in tempi di pandemia.
Oltre all’uso degli imballaggi leggeri, tra shopping online e precauzioni igieniche, anche i rifiuti ospedalieri si moltiplicano. Intanto i mesi di lockdown hanno colpito duramente la filiera del riciclaggio e il crollo del prezzo del petrolio necessario a produrre nuove plastiche, ha fatto il resto.
Il 2021 avrebbe dovuto essere per l’Europa l’anno della svolta.
A luglio entrerà in vigore l’ormai celebre direttiva che limita le plastiche monouso, parte di una strategia ambiziosa di transizione verso un’economia circolare. Invece è stato l’anno in cui l’umanità si è resa conto della sua pericolosa dipendenza dalla plastica, soprattutto quella usa e getta.
Le mascherine, ovunque
Nessuno sa esattamente quanti dispositivi di protezione personale siano stati utilizzati dall’ arrivo del Covid-19.
Per avere un’idea basti pensare che il giro d’affari che ruota intorno alle mascherine si è moltiplicato di circa 200 volte, passando in un anno da 800 milioni a 166 miliardi di dollari.
Qualche mese fa gli studiosi stimavano che nel 2020 si sarebbero utilizzati globalmente qualcosa come 129 miliardi di mascherine ogni mese, da sommare agli altri dispositivi di protezione (guanti, visiere, grembiuli) che viaggiano su cifre inferiori ma comunque imponenti.
Il perdurare dell’emergenza e l’estensione a sempre più paesi dell’obbligo di indossarla hanno reso questa stima addirittura ottimista: studi più recenti parlano di 7 miliardi di dispositivi al giorno a livello globale, ben 210 miliardi ogni mese.
Il continente europeo, nel suo complesso, ne consuma quindi circa un miliardo al giorno. In termini di peso (una mascherina pesa circa 3 grammi), nella sola Unione europea ogni giorno circa 1600 tonnellate di mascherine finiscono quindi tra i rifiuti.
Secondo questo ordine di grandezza, possiamo stimare il peso delle mascherine utilizzate annualmente nell’ Unione in circa mezzo milione di tonnellate: una cifra che corrisponde a circa l’8% della plastica finita in discarica negli ultimi anni (7,25 milioni di tonnellate nel 2018). Se tutte le mascherine finissero in discarica (in realtà una buona parte viene incenerita) basterebbero, da sole, a riportarci ai livelli di circa 10 anni fa.
Con il paradosso che pur essendo fatte in buona parte di polipropilene, un materiale riciclabile, per evitare il rischio contagio non possono entrare nella filiera della raccolta differenziata.
Inoltre, data la loro leggerezza e diffusione, è inevitabile che una parte dei dispositivi di protezione finisca per disperdersi nell’ ambiente, portando a un rischio sanitario e ambientale.
Secondo un report del WWF uscito durante la prima ondata, se anche solo l’1% delle mascherine si disperdesse per errore nell’ ambiente, significherebbe dieci milioni di tonnellate al mese in prati, boschi, torrenti e mari.
In realtà le stime per il littering, cioè la frazione dei rifiuti dispersi, parlano del 2% nei paesi del nord globale. Nella sola Unione europea parliamo quindi, tra 16 e 32 tonnellate al giorno.
Del resto già nei primi mesi del 2020 rinvenire mascherine trasportate dalle correnti era diventato comune in molte spiagge del Pacifico.
Da allora la quantità non ha fatto che aumentare. Tendono in genere a galleggiare, ma ne esistono di più pesanti, che affondano o restano sospese a tutte le profondità. Sono stati già osservati squali, tartarughe, mammiferi marini e uccelli che le hanno ingerite intere, mentre molti altri organismi sono spesso vittime dei cordini elastici per fissarle al viso.
Destinate, come tutte le plastiche che finiscono in mare, a frammentarsi fino a diventare microplastiche (in particolare microfibre), potrebbero finire per permeare la catena alimentare a ogni livello, e diventare presto, secondo alcuni scienziati, la prima fonte di detriti di spazzatura negli oceani.
Una parte finirà nei sedimenti marini, forse lasciando una testimonianza della pandemia alle prossime ere geologiche.
Il nuovo boom degli imballaggi
Da anni gli imballaggi costituiscono la frazione più voluminosa dei rifiuti in plastica, e nell’ Unione Europea assorbono ben il 40% di tutta la domanda di plastica. Questa categoria di rifiuti, nonostante le numerose iniziative per limitarla, è cresciuta inesorabilmente negli ultimi anni.
La plastica usata nel packaging (di cui è il secondo materiale costituente dopo carta e cartone), dopo l’arresto dovuto alla crisi economica del 2008, è cresciuta di una media di 2% l’anno, superando nel 2019 i 14 milioni di tonnellate.
Ora a seguito della pandemia il packaging accelererà ulteriormente la sua corsa. Anni di sensibilizzazione contro le confezioni eccessive, soprattutto nel settore alimentari, nulla hanno potuto davanti alla paura virus. E tra tutti i materiali possibili, è stata proprio la plastica, percepita (più a torto che a ragione) come più “asettica” e igienica, a risultare più appetibile.
La crescita più rilevante sarà però dovuta, verosimilmente, all’incredibile balzo in avanti del commercio online. Nel secondo trimestre del 2020, scrive il giornale Vox, le vendite digitali sono aumentate del 71% e del 55% nel terzo.
Il tasso di crescita annuo del settore degli imballaggi, secondo la società di consulenze Markets and Markets, si attesterà globalmente sul 5.5%, cioè oltre 100 miliardi di dollari in più rispetto al 2019. A trainare il settore, neanche a dirlo, il packaging a scopo igienico e sanitario e lo shopping online. È difficile dire a quanto corrisponderà in termini di rifiuti prodotti, ma c’ è da scommettere che non saranno cifre trascurabili.
L’ esplosione di rifiuti sanitari
Come facilmente immaginabile, i rifiuti del settore sanitario sono aumentati a dismisura dallo scoppio della pandemia. A gonfiare le cifre concorrono, oltre ai rifiuti propriamente ospedalieri, quelli domestici prodotti dalle persone in quarantena. A Wuhan, nei primi mesi del 2020 sono cresciuti sei volte rispetto all’ anno precedente. Anche i Paesi europei, nelle settimane successive, hanno visto un aumento paragonabile.
Secondo lo studio già citato per le mascherine, in tutto il continente europeo vengono attualmente prodotti 70 mila tonnellate di rifiuti di tipo sanitario al giorno. Per la sola Unione Europea, con questo ordine di grandezza, otteniamo circa 40 mila tonnellate, sei o sette volte in più che in tempi pre-pandemici.
Concentrati in determinate strutture e smaltiti o inceneriti in condizioni controllate, nonostante l’aumento impressionante questi rifiuti sembrano tutto sommato sotto controllo, almeno in Europa. Lo stesso non si può dire di molti Paesi del sud del mondo che avevano già difficoltà nello smaltimento dei rifiuti.
In molti casi, la grande quantità di rifiuti medici ha portato allo smaltimento in discariche aperte, con rischi per la salute pubblica e gravi conseguenze ambientali.
Il riciclaggio in crisi
Mentre nei mesi più duri di lockdown la domanda di plastica saliva alle stelle, gran parte della complessa macchina del trattamento dei rifiuti era praticamente ferma. In compenso, il prezzo del petrolio scendeva ai minimi storici, rendendo straordinariamente conveniente produrre plastica vergine.
La situazione per la filiera del riciclaggio in Europa appariva così grave che Tom Emans, il presidente dell’associazione di settore Plastics Recyclers Europe, dichiarava che senza azioni a livello comunitario l’intera industria del riciclaggio dell’Unione rischiava di chiudere i battenti.
Secondo un’inchiesta della Reuters, nella prima metà del 2020 la domanda di plastica riciclata livello globale è diminuita di oltre il 20%.
In attesa dei dati completi sull’ intero periodo, possiamo farci un’idea dell’ impatto della pandemia guardando i dati forniti nel rapporto Italia del Riciclo dell’Unione Imprese Economia Circolare. Tra marzo e maggio 2020, si legge nel documento, il 53% di imprese e consorzi coinvolti nella filiera dei rifiuti ha riscontrato riduzioni della raccolta differenziata superiore al 20%.
Tra maggio e agosto il calo, ancora marcato, si è attestato intorno al -10%.
Fortunatamente, questo aspetto della crisi si è rivelato tutto sommato temporaneo e i numeri sono tornati alla normalità nella seconda metà dell’anno.
Il giusto peso al Covid
Nonostante i numeri impressionanti, è ancora presto per dire se in termini assoluti la plastica legata alla pandemia influirà davvero sui trend della plastica a lungo termine.
L’ultimo decennio è stato caratterizzato da sforzi importanti in almeno 127 Paesi nel mondo, tra regolamenti, divieti e iniziative di sensibilizzazione del pubblico. Queste iniziative stanno riducendo significativamente la percentuale di plastica destinata alla discarica o peggio alla dispersione diretta nell’ ambiente.
Ciononostante la produzione di polimeri aumenta così rapidamente che in termini assoluti i numeri continuano a crescere, e di molto. E la plastica resta in circolazione per decenni.
Di questo passo, entro il 2050 si stima che il 99% delle specie di uccelli marini avrà ingerito plastica, facendola entrare stabilmente in tutti gli ecosistemi del pianeta.
L’Unione europea, che ha adottato una strategia ambiziosa per una transizione verso un’economia circolare, è forse l’entità politica che ha fatto di più per risolvere il problema della plastica. Nonostante l’aumento complessivo di rifiuti prodotti, tra il 2006 e il 2018 la percentuale della plastica utilizzata dai cittadini e finita in discarica è scesa del 44%, passando da 12,9 a 7,25 milioni di tonnellate.
Parte di questo successo, però, è stato raggiunto grazie all’ esportazione di materiale riciclabile in altri paesi, dove non sempre sono garantiti gli stessi standard.
La Cina, un tempo il maggior acquirente di rifiuti, ha chiuso le porte nel 2017, e molti altri Paesi potrebbero seguire l’esempio.
Oltre all’aspetto etico, pesa un emendamento della Convenzione di Basilea sui rifiuti che, dal gennaio di quest’anno, rende i criteri per l’export molto più esigenti. È probabile che questo ridimensioni significativamente i successi fin qui ostentati, e per questo occorre darsi da fare ancora con più urgenza.
Il lascito della pandemia
Al di là delle cifre, la plastica da Covid-19 ha reso evidente che ci troviamo davanti a un bivio. Da un lato, durante l’emergenza si sono moltiplicate le pressioni per ridurre o smantellare le regolamentazioni anti-plastica. In molti casi i tentativi hanno avuto successo.
Anche la Direttiva sulle plastiche monouso ha inizialmente rischiato di essere rimandata o pesantemente edulcorata, ma alla fine è rimasta in piedi.
Dall’ altro lato, però, sono in molti a pensare che l’esperienza del Covid-19 ci possa insegnare a cambiare passo.
Secondo uno studio uscito su Science of the Total Environment, la pandemia dovrebbe spingerci ad applicare le strategie di contenimento della plastica con ancora più convinzione. Gli sforzi, però, dovrebbero riguardare il settore in tutte le sue fasi, a partire dalla progettazione.
prodotti dovrebbero nascere già progettati per facilitare il riciclo e il riutilizzo. Si potrebbero incentivare le plastiche non ricavate direttamente dai combustibili fossili, attraverso la ricerca sulle bioplastiche, che finora non rappresentano una reale alternativa. Con questi materiali si potrebbero realizzare anche mascherine, guanti e visiere.
Ormai è chiaro che le strategie per gestire il ciclo dei rifiuti devono diventare più flessibili ed essere in grado di fronteggiare eventi imprevisti su scala globale (non necessariamente una pandemia).
La sensibilizzazione del pubblico, sostengono i ricercatori praticamente all’unanimità, è un altro aspetto fondamentale. Si tende però, spesso, ad addossare ai consumatori tutte le responsabilità che industria e politica non vogliono prendersi.
Se è vero che l’industria dei polimeri sta investendo più che in passato nella plastica riciclata, infatti, continua a investire molto di più su quella vergine, forte della domanda in continuo aumento.
«I consumatori dovrebbero preferire le alternative sostenibili, e allo stesso tempo queste devono essere sufficientemente disponibili, il che è il ruolo delle industrie e può essere promosso o imposto dai governi», spiega la ricercatrice Joana C. Prata del Centro studi ambientali e marini dell’Università di Aveiro, in Portogallo.
Un evento come una pandemia ha molto da dirci in un mondo dove i cambiamenti si fanno sempre più rapidi e investono in poco tempo tutto il pianeta. Se saremo in grado di ascoltare. Fonte: Linkiesta, 29.04.2021