Durata e spessore si stanno riducendo sull’intero arco alpino: un mese invernale in meno rispetto a 50 anni fa
Sempre meno neve, per sempre meno giorni, e questo per ogni versante della catena alpina. Un nuovo studio, il primo a coprire ogni versante e Paese della catena alpina fornisce l’evoluzione dell’“oro bianco“ negli ultimi 50 anni: durata e spessore del manto nevoso si stanno riducendo.
E dunque in veste autunnale prolungata o con primavere anticipate, sicuramente meno bianche. Secondo lo studio, condotto da più di trenta scienziati da Italia, Austria, Slovenia, Germania, Svizzera e Francia e pubblicato sulla rivista The Cryosphere, la neve è in calo in particolar modo sotto i 2000 metri, in primavera, a tutte le altitudini e in tutte le regioni (al di sopra di questa quota i dati sono più rarefatti e non mostrano un calo così marcato).
La neve è strettamente legata alla cultura umana nelle Alpi europee e ha portato ricchezza economica in regioni precedentemente remote attraverso il turismo. Certo, quest’ultima stagione verrà certamente ricordata come l’anno in cui il turismo invernale si è dovuto arrendere, messo in ginocchio dalla pandemia.
E questo nonostante per alcune settimane si siano registrate nevicate estreme, degne degli anni Settanta del secolo scorso.
Ridotta la «banca d’acqua»
In ballo però c’è di più del solo turismo e di ciò che avviene in inverno e limitatamente alla regione alpina. La neve sulle montagne è una risorsa a cui siamo adattati come società. È una “banca d’acqua” immagazzinata durante la stagione invernale che viene poi rilasciata in primavera e in estate. Una risorsa importante per l’approvvigionamento idrico, l’agricoltura, e la produzione di energia idroelettrica.
Dal punto di vista ecologico, la flora e la fauna di montagna dipendono dai tempi e dall’abbondanza del manto nevoso. Se l’inverno si accorcia di un mese, un’intero intreccio di ecosistemi, vasto quanto una catena montuosa deve adattarsi.
Il cambiamento più evidente negli ultimi cinquant’anni è il forte calo di neve, sia in spessore che in durata, soprattutto al finire della stagione, in primavera. Che in montagna, dati alla mano, arriva sempre più presto.
Prendendo in esame circa 800 stazioni di misura della neve in tutto l’arco alpino nei mesi tra novembre e maggio lo spessore della neve, i ricercatori hanno osservato che, sotto i 2000 metri lo spessore della neve è diminuito dell’8,4% per decade. Dove cinquant’anni fa lo spessore medio della neve al suolo era di 1 metro, oggi si misurano 60 cm. Sopra i 2000 i valori si sono mantenuti più elevati.
Come sottolinea Alice Crespi, ricercatrice dell’Istituto per l’osservazione della Terra di Eurac Research (Bolzano) e tra i principali autori del lavoro: «Mentre in inverno si nota un ampio ventaglio di variazioni a seconda del luogo e dell’altitudine, anche con isolati aumenti della neve soprattutto a quote più elevate, in primavera quasi tutte le stazioni hanno registrato diminuzioni». Sotto i 2000 metri, la stagione della neve si è ridotta in media di 22-34 giorni.
Un mese in meno
In altre parole, in cinquant’anni abbiamo perso un mese invernale e in particolar modo nel versante meridionale la neve al suolo tende a presentarsi più tardi e a scomparire prima con l’avvicinarsi della primavera.
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Alcuni numeri in dettaglio: sotto i 1000 metri di quota negli anni settanta del 1900, nel versante meridionale delle Alpi si avevano circa 100 giorni di neve, ora diventati circa 70. Mentre tra i 1500 e i 2000 erano 170, ora ridotti a 140.
Come se fosse una piccola porzione dell’Artico, le Alpi si stanno scaldando ad un ritmo più rapido rispetto alla media europea: nel corso del XX secolo, le temperature sono aumentate di 2°C, circa il doppio della media europea.
Posto che in montagna, un aumento medio di 1°C è accompagnato da un aumento dell’altitudine limite media della neve di circa 150 m, è chiaro che oggi il limite medio delle nevicate si trova circa 300 metri più in alto di un secolo fa. E se la temperatura media nelle Alpi aumenterà di altri due gradi come si aspettano gli scienziati, in meno di ottant’anni sarà ancora 300 metri più in alto di oggi.
Questi sono solo dati ed analisi, ma che possono essere interpretati come un monito per molte attività ed economie alpine soprattutto sotto i 2000 metri e al sud delle Alpi. Per esempio, a bassa quota le piste di sci di fondo diventano con il tempo economicamente e climaticamente insostenibili, mentre pur generando entrate economiche maggiori, anche l’innevamento artificiale delle piste da sci, il cui costo medio si aggira sui 50.000 euro diventa una spesa rischiosa.
L’impatto sul turismo alpino
In Italia, secondo il rapporto di Legambiente „Nevediversa“, circa l’80% delle stazioni sciistiche sono dotate di impianti per l’innevamento artificiale. Un processo che può costare intorno a 40mila euro l’anno per chilometro di pista.
Le Alpi richiamano ancora milioni di turisti invernali che si dividono su più di 10.000 impianti di sci. La cui neve cade sempre più frequentemente da un cannone sparaneve piuttosto che dalle nuvole.
Spiega Michael Matiu, anch’egli dell’Eurac di Bolzano: «In questo studio non abbiamo esaminato esplicitamente le correlazioni con il clima, ma è chiaro che la neve si scioglie prima e più velocemente a causa delle temperature più alte e che le precipitazioni si manifestano sotto forma di pioggia anziché di neve. È vero che quest’inverno ci sono state abbondanti nevicate, ma questo non è in contraddizione con i modelli climatici, che prevedono un aumento di casi estremi, incluso nevicate ingenti se ci sono le condizioni meteo perché ciò avvenga».
In breve, possono verificarsi nevicate intense, ma rimane che sul lungo periodo la neve arriva dopo, va via prima, e alle basse quote diventa una rarità. Fonte: LifeGate, Jacopo Pasotti, 18.03.2021