L’impegno e la dedizione di un gruppo di imprenditori vitivinicoli ha costruito sulla storia di un vitigno risalente alla Serenissima un prodotto nuovo, di grande carattere e decisa contemporaneità
Ai tempi della Serenissima la “Cantina” della Repubblica di Venezia era, a tutti gli effetti, la bassa padovana, sin dal 1400. Da qui iniziava il percorso verso la laguna del “vin Friularo”, detto “vin da viajo”, ossia vino da viaggio: perché non aveva paura di affrontare il tempo e il mare.
Già nel termine, ci sono discussioni: l’etimo Friularo deve infatti molto alla rigidità della stagione in cui si conclude la raccolta delle uve. Il “vin frigoelaro”, letteralmente vino del freddo, era certamente già apprezzato in forma primigenia dagli antichi abitanti dei villaggi paleoveneti. Con le bonifiche benedettine, che restituirono nuove e fertili terre ai contadini, si svilupparono le originali coltivazioni a “tirella” o “spalliera raggiata”, che sfruttavano il salice quale supporto vivo per sostenere la vite.
Alla fine del 1700 il poeta e medico Venezia Ludovico Pastò dedicò addirittura un lungo ditirambo al Friularo:
Ma fra i Vini el più stimabile,
El più bon, el più perfeto
Xe sto caro Vin amabile,
Sto Friularo benedeto
E questa varietà autoctona locale, fra le più antiche tipologie di vite italiane, dà vita a un vino rosso, forte, intenso, di eccellente complessità. Ricavato da uve riconducibili al ceppo dei rabosi, con grappoli ampi, dagli acini a buccia spessa, gelosamente appassiti, viene invecchiato a lungo e custodito in botte, fino alla piena maturazione. Dal 2011 è annoverato fra le Docg italiane.
La cantina di Conselve ha 800 soci produttori di uva che raccolgono un totale di 210 mila quintali di uve Friularo o raboso, che sono sempre esistite in questa pianura a sud di Padova, delimitata dai Colli Euganei, fino ai confini con Venezia, che già dal Medioevo i monaci benedettini strapparono alle acque. Anticamente veniva coltivato sfruttando quale sostegno per la vite un supporto vivo, solitamente un salice, con sistemi detti “a tirella” o “a cassone”. Ancora oggi, alcuni conferitori utilizzano questa tecnica.
La DOCG comprende 14 comuni nell’areale del conselvano, per un totale di produzione di 350mila bottiglie e 45 aziende specializzate che aderiscono al progetto Ambasciatore e che sono cresciute rispettando un disciplinare di produzione molto rigido.
Ma cos’è cambiato dal 2000? Questo vitigno ha sempre prodotto un’uva con elevata acidità. Nel 2000 nasce il progetto pilota per smussare questa acidità intrinseca, attraverso l’appassimento delle uve. In quell’anno le uve di alcuni soci sono state raccolte in cassetta, fatte appassire in fruttaio e pressate tra dicembre e gennaio. Per l’appassimento delle uve, da novembre a gennaio, si ricorre sia al metodo “in fruttaio ventilato”, adagiando i grappoli su delle cassette, sia all’appassimento in pianta, lasciando gli acini ad invecchiare sulla vite, dopo aver reciso il capo a frutto.
La produzione ha portato alla creazione del Friularo, l’evoluzione moderna del prodotto che qui è sempre stato trasformato in vino, ma con una differenza sostanziale, che è appunto l’appassimento.
«Questa novità ci ha permesso di consolidare nuovi mercati ed essere apprezzati all’estero» spiega a Gastronomica Roberto Lorin, Presidente Conselve vigneti e cantine. «Se prima questo vitigno dava vita a vini di difficile appeal, l’appassimento ha mitigato la sua spigolosità, mantenendo la sua caratteristiche tipiche. La produzione avviene in piena pianura veneta, quindi parliamo di viticultura di pianura e da due anni la coltivazione di queste uve è sostenibile, aderendo al sistema di certificazione Lotta Integrata. È quindi minimale per i produttori l’uso degli agrofarmaci, si cercando tecniche alternative per eliminare gli insetticidi. Tra cinque anni, quando usciremo con l’annata 2019, potremo applicare alla bottiglia il simbolo dell’ape».
Il lavoro che è stato fatto è un progetto di grande contemporaneità: i soci hanno provato a trovare il cuore moderno di questo vitigno antico, contestualizzandolo nell’attualità e sfruttando a pieno le sue peculiarità e le sue caratteristiche.
Ne è nato un vino diverso dal suo avo ancestrale, ma che riesce comunque a raccontarne le tipicità e a far giungere nel bicchiere la linfa di questo territorio.
Il 2000 è stato l’anno zero, e oggi a distanza di 20 anni si può vedere un primo importante passaggio: il percorso costruito nel tempo ha portato questa novità nel mondo complesso dei grandi vini, diventata la seconda docg di Padova, l’unica da uva a bacca rossa.
La soddisfazione di chi ha lavorato al progetto è palpabile: «Siamo nell’olimpo alle grandi denominazioni, e se è vero che la tecnica che abbiamo usato esisteva già, con le peculiarità del nostro vitigno, la sua spalla acida ottima e l’ottima conservabilità, il vino è caratterizzato dal suo stile unico. È stato bello viverne tutta l’evoluzione». Fonte: linkiesta, Anna Prandoni, 14.12.2020