L’Europa boccia l’Italia. Francesco Petracchini all’Huffpost: “Con interventi mirati -30% del particolato”
L’Italia è tra i primi Paesi europei per morti legate all’inquinamento atmosferico. L’aria delle città è in lento miglioramento, ma particolato, ossido di azoto e ozono continuano a superare i limiti di legge. Il quadro che esce dall’ultimo rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) sulla qualità dell’aria nel continente indica che nel nostro Paese c’è ancora molto lavoro da fare.
Secondo il report, l’Italia è tra i sei Paesi (con Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia e Romania) ad aver registrato nel 2018 superamenti dei valori limite per il PM2,5. Sono le piccolissime particelle che penetrano nel nostro apparato respiratorio, causando problemi cardiovascolari e polmonari. In Italia nel 2018 sono morte prematuramente 52.300 persone per conseguenza dell’esposizione al PM2,5: è il secondo dato più alto in Europa.
“Il particolato si forma sia direttamente, sia dalle reazioni di altri inquinanti. Se guardiamo l’inquinamento primario, un ruolo importante lo gioca sicuramente il traffico”, spiega Francesco Petracchini, direttore dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr (IIA-CNR). Secondo l’EEA, il 40% del PM2,5 primario viene dal settore dei trasporti. Un’altra importante causa sono gli impianti di riscaldamento. “A peggiorare il quadro italiano c’è poi il fattore meteoclimatico, perché nelle aree con maggiore inquinamento atmosferico come la pianura Padana, manca il rimescolamento dei gas, cosa che si osserva invece in Nord Europa. Inoltre c’è un contributo naturale: pensiamo alle frazioni più fini delle sabbie desertiche che il vento porta per esempio dal Sahara”. Se dunque pesano anche aspetti esterni alle città, le politiche sono ancora più necessarie: “Con interventi mirati si potrebbe comunque arrivare a una riduzione del 30% del particolato”, dice Petracchini.
L’Italia è anche tra i 16 Paesi che superano i limiti di concentrazione previsti per gli ossidi di azoto: la fonte principale è la combustione legata ai trasporti, e gli effetti sull’uomo riguardano l’infiammazione delle vie respiratorie e danni allo sviluppo della capacità polmonare. La loro reazione con altri inquinanti come monossido di carbonio, metano e composti organici volatili genera anche un’altra sostanza pericolosa per la salute: l’ozono, i cui limiti di legge sono stati superati nel 2018 in 20 Paesi europei, tra cui sempre l’Italia. Secondo l’Eea, il nostro Paese nel 218 è stato primo in Europa per morti premature legate all’esposizione agli ossidi di azoto (10.400 decessi) e secondo dopo la Germania per le morti legate all’ozono (3.000).
Il nostro Paese è già stato condannato dalla Corte di giustizia europea per lo sforamento dei limiti massimi per il PM10 ed è sottoposto ad altre due procedure di infrazione per l’inquinamento da PM2,5 e biossido di azoto.
Interventi sarebbero necessari anche sul fronte del riscaldamento e della produzione di energia: “Le rinnovabili devono entrare nel nostro quotidiano, supportando l’elettrificazione del riscaldamento. Bisogna inoltre ridurre ancora la produzione di biomassa, diffusa in alcune zone del Paese”, dice Petracchini. I generosi incentivi per l’efficienza energetica potrebbero dare un contributo alla riduzione delle emissioni dal settore degli edifici, che continuano a diminuire troppo lentamente.
Di fronte a questi dati, per il direttore dell’istituto del CNR anche tutti i nodi della mobilità italiana vengono al pettine: l’Italia è il Paese europeo con il più alto tasso di motorizzazione (620 auto ogni mille abitanti), con pochi veicoli elettrici, un uso limitato dei mezzi pubblici e poche vie ciclabili e pedonali. “Servirebbero un indirizzo chiaro e delle politiche forti e decise in chiave sostenibile. Mentre in Gran Bretagna Johnson ha di recente firmato un decreto che vieta la vendita di auto a benzina e diesel dal 2030, in Italia oggi si incentivano sia i veicoli elettrici, sia quelli ad alimentazione tradizionale”.
Rimaniamo il Paese in cui si vendono più veicoli diesel, principali responsabili proprio delle emissioni di ossidi di azoto, mentre bisognerebbe puntare sull’elettrico: “Il governo italiano fissi una data per lo stop alle vendite di auto a benzina e diesel, come fatto dal Regno Unito col 2030”, dice l’avvocato Ugo Taddei della ong ClientEarth. Sul fronte della mobilità ciclistica, per Petracchini “va bene il bonus bici, ma servono investimenti nelle infrastrutture. La bicicletta va resa un mezzo competitivo e davvero utilizzabile in città”.
L’altra faccia dei trasporti riguarda la consegna delle merci, resa cruciale dalle dinamiche innescate dalla pandemia: nel 2020, secondo le stime del consorzio di categoria NetComm, l’e-commerce crescerà del 55%. Per Petracchini, la struttura del settore della logistica, fatto di tanti padroncini proprietari ognuno del proprio mezzo, non rende possibili grandi investimenti in furgoni a ridotte emissioni: “Anche qui servono incentivi forti per convincere i corrieri a cambiare i propri mezzi, oltre che infrastrutture come i sistemi di ricarica”.
A un anno e mezzo dalla scadenza per la presentazione all’Unione europea, denuncia il raggruppamento europeo di ong European Environmental Bureau, “il piano italiano per ridurre l’inquinamento dell’aria è ancora in bozza, mentre Grecia, Lussemburgo e Romania non lo hanno ancora”. I numeri per intervenire non mancano, e accanto a quelli negativi dell’inquinamento dell’aria ci sono gli altri più positivi riguardanti gli effetti ambientali della forte riduzione del traffico nel primo lockdown. Tra tutti, come mostrano i dati dell’IIA-CNR c’è il crollo del pericoloso biossido di azoto: a Roma le concentrazioni medie sono state inferiori ai quattro anni precedenti rispettivamente del -59% a marzo e del -71% ad aprile, a Milano si è avuta una riduzione del -29% e -43% rispetto alla media dello stesso periodo 2016-2019. Fonte: Huffpost, Veronica Ulivieri, foto Nicolò Campo via Getty Images. 25.11.2020
Alberi per salvare le città: “Non più arredo, ma sistema produttivo autonomo”
“Sarà l’albero come sistema produttivo autonomo a salvare le città”. A dirlo è Massimiliano Atelli, presidente del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, incontrato da HuffPost in occasione della sesta edizione degli Stati generali del verde urbano. “Oggi va cambiata la scala di riferimento dentro gli aggregati urbani, passando dal fazzoletto verde, ostaggio dei palazzi che lo circondano, alla foresta urbana”, spiega. “Perché l’albero non va inteso come arredo, come riempi vuoto tra i palazzi, ma come uno spazio che dà vita ai palazzi, che è una prospettiva completamente diversa”. L’Italia di per sé non è un Paese povero di alberi, ma non ne ha abbastanza dove servono maggiormente, cioè dentro, e intorno (cinture periurbane) alle città, perché al loro interno – già oggi, e in modo crescente entro il 2050 – si addensa la maggiore concentrazione di persone. Questa affluenza sta già esponendo ed esporrà in misura crescente città sovrappopolate “agli effetti negativi delle emissioni di anidride carbonica e del cambiamento climatico”, con effetti e riflessi di ragguardevole portata sia sul piano sanitario che su quello economico. E per economico si intende previdenziale, assistenziale, dell’efficienza energetica e dell’immobiliare, produttivo in senso ampio e, più in generale, della qualità del vivere.
Anche i polmoni hanno i loro diritti
Se si vuole giungere allo scenario nuovo, va cambiato il modo in cui si guarda l’albero: “Per duecento anni lo si è guardato dal punto di vista della bellezza, ma invece è importante andare oltre la percezione estetica, passando a un modello diverso”. È vero che anche l’occhio vuole la sua parte, “ma i polmoni non hanno meno diritti”. L’albero, come ricordava Atelli in principio, “va guardato come un sistema produttivo, perché diversamente da una panchina è un essere vivente e non può essere messo alla stregua di una panchina”. Esso ha un ciclo di vita e nel corso di questo ciclo di vita fa essenzialmente due lavori: “Pulisce l’aria e mitiga l’effetto isola di calore e lo fa per il solo fatto di esistere”. E non esiste un altro sistema produttivo che da solo faccia questo lavoro. Il suo fabbisogno si limita alle cure di poche mani esperte e “se tu gli dai questo mimino di attenzioni, lui ti restituisce tantissimo”.
Le foreste urbane ci proteggono dal cambiamento climatico
È in questa cornice complessiva che, accanto all’immutata consapevolezza, sempre più suffragata sul piano scientifico, del ruolo forte di contrasto che le foreste urbane svolgono sul piano del climate change, “cresce anche la percezione dell’importanza che, rispetto alle emissioni di CO2, sta assumendo l’aspetto dell’assorbimento, quale essenziale complemento di quello propriamente riduttivo”. L’importanza di questo aspetto è ormai riconosciuta tanto in ambito pubblico quanto in quello privato. Per ciò che riguarda il pubblico, “in primo luogo, che con il Decreto ministeriale 9.10.2020, attuativo del dl Clima di fine 2019, si sono per la prima volta resi disponibili 30 milioni di euro per progetti concreti da realizzare in tutte le 14 Città metropolitane, valorizzando il ruolo degli attori locali”. Va poi aggiunto che, “nell’ambito del 37% del Recovery fund destinato al New Green Deal, si stanno già sviluppando precise linee di azione, per la quota di fondi dell’Italia, che tendono a fare leva proprio sulla forestazione urbana quale driver a basso costo e ad alto impatto, nei contesti urbani, per incidere su qualità dell’aria e livello delle temperature”, prosegue Atelli.
Quanto al privato, spicca anche nel nostro Paese “la spinta creatrice del privato sociale e della finanza d’impresa (CSR, ma non solo), che ha colto da tempo l’importanza di questo aspetto e si sta applicando nella ricerca del modo più congruo di integrare le proprie azioni in questo campo con le politiche pubbliche, per un verso, e con le rispettive politiche aziendali, per altro verso”.
I pini di Roma a rischio, tra valore paesaggistico ed elementi microclimatici
“A Roma oggi si stanno tagliando moltissimi pini, che effettivamente hanno delle radici superficiali e diventano un elemento di disturbo, ma costituiscono anch’essi l’identità della città”. L’architetto Maria Cristina Tullio, presidente di AIAPP, Associazione italiana architettura del paesaggio, lo spiega con convinzione. “Essi non vengono sostituiti e quindi questo cambia completamente il paesaggio della città”. Oltre al discorso della qualità dell’aria, che senza gli alberi non avremmo, come già detto da Atelli, c’è anche il tema dell’ombra: “Quella generata dall’albero è un’ombra fresca, più di quella di una tenda o di un edificio”. Ciò accade grazie alla fotosintesi, che trasforma i raggi del sole in ombre fredde poiché tutto il calore viene assorbito. “L’ombra vegetale, anche di una pianta rampicante su un pergolato, può abbassare anche di tre gradi centigradi la temperatura al suolo”. Di questi tempi c’è la moda di piantare alberi, “che va benissimo, però non basta piantarli, ma va pensato dove piantarli e come mantenerli in modo che possano diventare adulti, visto che ci mettono anni”. La forestazione urbana, dunque, “richiede un progetto che deve essere anche in forma di organizzazione spaziale e che rivendica altresì un criterio di vita dei luoghi, degli spazi pubblici, dei parchi che sono importantissimi per le persone”. Noi abbiamo in Italia un “patrimonio arboreo impressionante”, ma serve un’accelerazione nella cultura e nell’approccio, e in questo la Francia sarebbe un buon modello da guardare. Fonte: HuffPost, 25.11.2020