Il covid, la fusione del permafrost e i roghi in California: niente ci convince in pieno sull’urgenza di agire contro i cambiamenti climatici. I consigli del meteorologo e divulgatore scientifico ai Verdi: selezionate dieci under 30 dal curriculum inapputabile e candidatevi alla guida del paese
Le foto di San Francisco soffocata da un fumo rosso, le esplosioni di metano nel permafrost in Siberia, l’alluvione a Cagliari (i nuovi eventi meteorologici improvvisi che abbiamo preso assurdamente a chiamare “bombe d’acqua”), il comunicato del WWF secondo il quale due terzi della fauna selvatica sono scomparsi dal pianeta terra negli ultimi cinquant’anni: sono solo il bollettino settimanale della catastrofe climatica che quanto più si fa presente nelle nostre vite, più cerchiamo di rimuovere. «È un meccanismo psicologico: c’è un grosso problema, un problema scomodo che ti porta fuori dalla comfort zone e allora tu fai finta che non esista. O che potrai risolverlo domani», ci dice Luca Mercalli, meteorologo, divulgatore scientifico, uno dei principali esperti italiani di cambiamento climatico.
San Francisco rossa sembrava davvero una scena di Blade Runner.
E non è la prima volta, anche l’anno scorso c’è stato un episodio simile per intensità. A San Francisco il fumo arrivava, addirittura, da Oregon e Washington. Il Governatore dello stato di Washington ha detto «non riconosciamo più il nostro Stato» non solo per descrivere il paesaggio dopo la distruzione, ma anche perché questi incendi sono l’effetto dei cambiamenti climatici. Perché la conseguenza della siccità e del caldo è il maggior rischio di incendi. Quando il clima era più umido incendi così non si sviluppavano così a Nord.
Sembra passato di più perché c’è stata la pandemia di mezzo, ma gli incendi in Australia erano solo otto mesi fa.
A pochi mesi di distanza due casi epocali: California e Australia. E questo solo perché parliamo più volentieri dei paesi affini a noi per cultura. Ma non dimentichiamo che incendi di questa portata ci sono appena stati anche in Siberia, solo che in zone meno abitate e se ne è fatta meno notizia.
In Siberia c’è appena stata anche l’esplosione nel permafrost che ha realizzato quel buco molto fotogenico.
Anche quella è una concausa del caldo. Non dimentichiamo che quest’anno hanno fatto 38° a Verchojansk, in Russia, oltre il Circolo polare artico. Il permafrost si fonde e crea problemi anche alla stabilità delle case che si crepano e agli oleodotti che si spaccano. Ma nel mondo russo queste cose si notano meno perché sembrano abituati a questo sfascio. Mentre quando colpisce San Francisco tutti rimangono allibiti.
Infatti mi pare che i lettori si siano più spaventati per un’eventualità collegata e cioè che intrappolati nel permafrost ci siano virus sconosciuti che col caldo saranno liberati.
Magari le tracce ci sono, ma è difficile che siano attive. Ma in questo periodo è naturale che quest’aspetto catturi maggiormente l’attenzione.
Un’altra notizia della settimana è che, secondo il WWF, due terzi della fauna selvatica è sparita dal pianeta terra negli ultimi 50 anni.
Poco più di un trafiletto sui giornali. E questa è una notizia data da un’organizzazione ambientalista. Ma nel maggio 2019, una fonte scientifica ancora più autorevole e cioè un organismo dell’Onu, l’IPBES (Intergovernmental Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) pubblicò un terribile comunicato ufficiale per dire che stiamo andando incontro alla più grande estinzione nella storia dell’umanità, con un milione di specie viventi minacciate di estinzione, e aggiunse che non si fa abbastanza e che l’ostacolo principale è l’economia. Parole ancora più forti, ma non le ricorda nessuno. È passato completamente sotto silenzio.
Questo mi porta alla grande domanda: perché resta sotto silenzio? È colpa dei media che non danno il risalto giusto o dell’opinione pubblica che è disinteressata?
Un mix. Ma anche per me è la grande domanda. Cerco di dargli risposta in tanti modi, ma chiedo il soccorso dei colleghi che si occupano di scienze umane perché qui c’è chiaramente una questione di psicologia sociale e di antropologia o sociologia. Non è una risposta che posso dare io come ricercatore del clima.
Il Covid ci ha insegnato a temere la natura?
Il Covid ci ha dato una grande lezione di metodo: ci ha fatto capire che se non c’è la paura immediata, a breve termine, una paura che misuri in giorni, i famosi 14 giorni, da quando credi di esserti infettato fino a quando non sviluppi i sintomi, difficilmente si fa qualcosa. Col clima, però, non misuriamo la paura in giorni, ma in decenni. E allora la gente tende a spostare in là la priorità dei problemi, lo considera un problema di domani.
Vedi altre analogie?
Tutti abbiamo vissuto il Covid come una questione per cui comunque sarebbe stata trovata una soluzione. Siamo stati disposti ad accettare perfino il lockdown con la promessa implicita che sarebbe passato. E poi ci sarebbe stata, com’è adesso, la speranza del vaccino. Si accetta, insomma, un cambiamento forte del proprio stile di vita, ma con la promessa che sarà temporaneo. Purtroppo, il cambiamento climatico ci dice una cosa diversa e più difficile da accettare: se vogliamo garantire la sopravvivenza dell’umanità non possiamo che fare qualcosa di grosso, inedito, radicale e, soprattutto, duraturo. Non può essere temporaneo. Se dobbiamo abbandonare il petrolio, questa cosa deve essere per sempre.
Non sembra una cosa semplice.
È chiaro che non si può fare in una notte: è una cosa che va negoziata e discussa. Ci vorranno dieci anni, d’accordo. Ma nessuno vuole iniziarlo davvero questo percorso. E non mettendo questo discorso sulle prime pagine, non investendo energie nel dibattito e non costruendo una priorità sociale e politica del problema noi perdiamo il bonus di tempo che ci viene concesso solo questa volta nella storia dell’umanità.
È una rimozione condivisa a tutti i livelli.
Riutilizzo un discorso che faceva Primo Levi quando raccontava come era stato possibile, negli anni Trenta, permettere che si diffondesse il male, pur vedendone le tracce ovunque. Primo Levi parlava di «cecità volontaria». Però il Covid, di nuovo, ci ha mostrato che ogni giorno perduto è stato pagato con migliaia di morti. Se avessimo introdotto mascherina e distanziamento sociale, che ne so, a gennaio, magari non ci sarebbero stati né trentamila morti né il lockdown. Ogni anno perso col clima provocherà maggiori sofferenze in futuro.
Durante il lockdown per alcuni è stato un sollievo vedere che, perlomeno, l’ambiente sembrava trarne giovamento.
È come un fumatore che non ha fumato per un weekend. Magari ha un piccolo giovamento, ma se ricomincia il lunedì non è che poi i polmoni guariscono. È stata una cosa temporanea che non ha cambiato nulla nella sostanza. Ci ha mostrato solo che un cambiamento è possibile, ma quello era un cambiamento che abbiamo subito, mentre dovremmo governarlo. Consapevoli, però, che un prezzo da pagare c’è comunque.
Non hai l’impressione che la necessità di rilanciare l’economia rischi di frenare l’attenzione per l’ambiente?
Era talmente poco quello che si vedeva prima che non vedo il problema. Per ora, anzi, si viaggia e si inquina molto meno. L’unico dato nuovo è il Green Deal europeo, un processo che era appena cominciato e che speriamo venga mantenuto in piedi.
Negli ultimi anni si è parlato moltissimo di crisi degli esperti. Il Covid poteva essere l’occasione per ridare centralità alla scienza e agli scienziati, invece a me pare che l’occasione sia stata sprecata, soprattutto dai medici.
Anche io sono rimasto sorpreso perché credevo che nel settore ci fosse maggiore compattezza. Ho riconosciuto due elementi. Il primo assolutamente epistemologico: il virus è nuovo e dunque la ricerca scientifica non scopre tutto e subito. Ci vorranno anni per sciogliere tutti i dubbi. Ma questo è il lato positivo perché vuol dire che la comunità scientifica lavora bene. C’è, invece, un lato negativo: ha dominato più l’ego delle persone che il contenuto scientifico. E questo aspetto è stato amplificato dai media. In mezzo a migliaia di ricercatori che hanno lavorato e stanno ancora lavorando sul virus, i media hanno scelto e sovraesposto dieci persone. E questo è un difetto principalmente italiano.
Alle ultime amministrative francesi c’è stato un trionfo dei verdi che adesso anche lì hanno una fortissima presenza politica, come in Germania e tanti altri paesi europei. Perché in Italia invece non c’è una presenza politica ambientalista forte?
Anche in Francia, fino a due anni fa, i verdi erano ridotti come in Italia. Ma poi hanno saputo recuperare la credibilità perduta. In Italia, invece, il partito verde non sta sfruttando il momento favorevole e non ha capito che deve rinnovarsi, innanzitutto come persone. Ho avuto dei colloqui e ho provato a spiegare: ma se non lo fate adesso, quando? In Italia non c’è stato nemmeno marketing, almeno si fosse fatto un po’ di marketing! Chi oggi è seduto su quella poltrona dovrebbe avere il coraggio di farsi da parte. Io suggerirei di selezionare, come a un concorso per titoli o esami, alcune donne e uomini sotti i 30 anni, preparati su una disciplina coerente col discorso ambientale e con quello sociale, poi fargli fare dei mesi di corsi full-immersion per completare la formazione. A quel punto, con un curriculum inossidabile presentarli come i dieci candidati del partito verde.
Invece si parla di nuovo del ponte sullo stretto. Però con la pista ciclabile, così, dicono, è “green”.
Sono scelte che si commentano da sole. Il Ministro Costa ha delle idee buone, vedo che va ai convegni ad ascoltare. La Ministra De Micheli, invece, gliele distrugge.
L’estate italiana è stata falcidiata da decine di eventi atmosferici anomali. Ma non sembrano interessare l’opinione pubblica al di là della contingenza.
La novità di quest’anno è che hanno colpito i centri urbani. A Cagliari. Prima a Verona, a Torino, a Cortina, a Milano dove i fiumi esondano con regolarità, a Brescia due volte in modo grave, a Messina, a Palermo. Ma sono sempre vissuti come fatti locali e temporanei. E, alla fine, anche qui sarà solo l’economia a farci cambiare opinione: solo quando le assicurazioni costeranno il doppio e solo quando lo Stato non potrà più aiutare a riparare i danni ci si renderà conto che non possiamo andare avanti così. Ma è possibile che si debba sempre e solo attendere il punto di rottura?
E’ stato appena presentato alla Mostra del Cinema di Venezia il documentario su Greta Thunberg.
Sono vicino alle manifestazioni dei ragazzi, ma bisognerebbe cominciare ad alzare il livello della protesta, in modo civile, ovviamente. Ma con forme incisive. Il 9 ottobre ci sarà il nuovo sciopero globale, ma anche Greta dice «sono passati due anni e non è cambiato niente». Servirebbe qualcosa di più concreto. Anche sul piano politico. I ragazzi si uniscano, le capacità le hanno, creino loro il movimento ambientalista che adesso non esiste. Spostino loro la politica, creando una loro rappresentanza. Facciano i giovani verdi, magari con un nome diverso, visto che i vecchi verdi non funzionano. Ma di fronte a questo referendum o a queste elezioni regionali capisco che il voto si disperda e loro si allontanino dalla politica. Fonte: LK-linkiesta, Arnaldo Greco, 14.09.2020