Tra i mille pensieri che in questi giorni ci stanno attraversando come cittadini e come esseri umani in piena pandemia di Coronavirus ce n’è uno che ho realizzato improvvisamente soltanto oggi: sono un anziano con patologie pregresse. Senza alcun preavviso mi ritrovo d’un tratto a far parte della categoria di popolazione più a rischio.
I miei “ruggenti” 70 anni suonati emergono in tutto il loro splendore e in tutto il loro peso, e con essi un quadro evidente eppure non abbastanza sottolineato. A pagare più duramente gli effetti dell’epidemia sono gli anziani, di cui appunto faccio parte anch’io, e i poveri (purtroppo in continua crescita). Sono gli anziani pagare il più alto tributo in termini di vittime e sintomi gravi, ma c’è anche un altro aspetto: tutti quegli anziani che si trovano nelle case di cura, nelle strutture residenziali e terapeutiche, vivono un periodo di totale isolamento. I parenti non possono fargli visita per non metterne a repentaglio la salute, e questo ha un impatto enorme per tutti. Improvvisamente rischia di compromettersi in maniera netta un legame generazionale che non è fatto, come erroneamente tendiamo a semplificare in queste settimane, solo di assistenza ma che al contrario si nutre di racconti, di storie, di passaggi di narrazioni, di conoscenze, di affetto. La nostra società si trova tutto ad un tratto a essere priva di un patrimonio di esperienze e di vissuti enorme, che non solo fa parte delle storie familiari di ognuno di noi, ma che costituisce l’anima profonda delle nostre comunità, ne rappresenta l’ossatura culturale e sociale. Si tratta di una perdita inestimabile e, quando questo difficile momento sarà passato, saremo tutti infinitamente più poveri. Ho sentito e letto da più parti presunte “rassicurazioni” sul fatto che, dato che l’età media delle vittime del virus si aggira intorno agli 80 anni, non c’è da spaventarsi eccessivamente. Fatto salvo che, da soggetto parte in causa, non trovo molto simpatico questo pensiero, voglio però sottolineare fortemente l’aspetto culturale e sociale che il nostro paese perde insieme ai suoi anziani. Non possiamo permettercelo, per questo è ancora più decisivo e importante limitare i contagi e attenersi alle regole, dure, che in questi giorni ci toccano.
Parlando delle categorie più colpite, la lista non si esaurisce con gli anziani. Può sembrare banale dirlo, ma chi paga il prezzo più alto sono come sempre i poveri. Se per noi benestanti un mese di quarantena significa doversi inventare un modo per impegnare le giornate tra esperimenti culinari e letture che aspettavano da anni di essere affrontate, per un numero enorme di indigenti quello che stiamo vivendo è un disastro epocale. Non tutti possono permettersi di non lavorare per un mese o più, per moltissimi passare dal salario pieno alla cassa integrazione significa immediatamente scendere sotto quella precaria soglia di povertà lungo la quale solitamente si galleggia a malapena. Senza, poi, parlare di chi vive con lavori saltuari.
Ecco allora che tutte le misure necessarie a sostenere la popolazione più in difficoltà in questo momento vanno prese senza esitazione affinché tutti possiamo uscirne in piedi.
D’altra parte è però necessario incominciare a pensare a che cosa intenderemo fare dopo per rendere meno vulnerabili i nostri cittadini.
È sempre più chiaro che una società così diseguale non ha futuro, che dobbiamo tornare a puntare sui servizi pubblici essenziali gratuiti e di qualità per tutti, a partire dalla scuola e dalla sanità passando per gli aiuti al reddito e per il sostegno all’abitare.
E forse dovremmo interrogarci una volta per tutte su un modello economico che funziona solo creando disparità e divario, che è pensato affinché per ogni benestante ci siano molti poveri, per ogni ricco ci siano troppi emarginati. Sacrosante le preoccupazioni quotidiane circa le reazioni dei mercati finanziari, ma è il momento di cambiare radicalmente paradigma. Rimettendo al centro poveri e anziani ridiamo dignità al nostro essere comunità umana su questo pianeta.