REmini2020: Carlo Petrini, gastronomo che nel 1986 ha fondato l’associazione Slow Food, racconta com’è cambiata da allora la sensibilità nei confronti di un’alimentazione sana e sostenibile.
Gli amici lo chiamano Carlin. È nato a Bra nel 1949, fra le colline alle porte dei vigneti del Roero, quei dolci paesaggi piemontesi che l’Unesco ha classificato come patrimonio dell’umanità. Ed è proprio lì che ha fondato Slow Food. Incontriamo Carlo Petrini alla 40esima edizione del Meeting di Rimini: sorridendo si siede nel corridoio, c’è un viavai di persone ma la piacevole conversazione che intavoliamo sembra farle sparire, mentre il tempo si ferma. Un po’ come succede a tavola. O dovrebbe accadere: troppo spesso inghiottiamo un panino al volo senza neppure staccare gli occhi dal pc. Il grano magari proviene da coltivazioni ogm, l’hamburger ha richiesto 2.400 litri d’acqua per essere prodotto. Slow Food è l’opposto di tutto ciò: dal 1986 l’associazione si propone d’insegnarci a dare il giusto valore al cibo, che significa anche “dare la giusta importanza al piacere, imparando a godere della diversità delle ricette e dei sapori, a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione e degli artefici, a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio”.
Dobbiamo tornare alle origini. Se ci pensiamo, è l’essenza della nostra terra. “Quando ho conosciuto Gualtiero Marchesi, mi ha fatto assaggiare il suo famoso raviolo aperto: sublime”, ricorda Petrini. “L’ho subito raccontato alle azdore (le “massaie” in dialetto emiliano, nda) che conosco in Emilia-Romagna. E loro: ‘Ma c’è voluto un secolo per imparare a chiudere tortelli e cappelletti!’, hanno risposto”.
L’attuale produzione alimentare non è democratica: “Prodotti biologici che crescono vicino a terreni coltivati con ogm vengono infettati”. Certamente non è sostenibile: l’erosione del suolo, la contaminazione delle acque, l’emissione di grandi quantità di anidride carbonica sono solo alcuni degli effetti dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi, che peraltro non hanno saputo sfamare il mondo. “Il fatto che ci siano dei morti di fame genera un senso di vergogna in tutti noi, quindi è importante reagire ed essere coscienti di una cosa: mentre c’è chi non ha cibo a sufficienza, nella produzione alimentare c’è uno spreco del 38 per cento; ovvero di tutti gli alimenti che produciamo, il 38 per cento viene buttato via. Il primo terreno da arare è questo”, spiega Petrini, che è ambasciatore speciale della Fao in Europa per l’obiettivo “Fame zero”. Ci invita a riflettere. Sustainability (sostenibilità in inglese) deriva da sustain, che nel pianoforte è il pedale che consente di allungare la durata di una nota. “Il consumismo non è la nostra felicità”, continua Carlin. Dobbiamo smetterla di produrre senza freni per poi gettare le eccedenze. Dobbiamo allungare la vita di ciò che cuciniamo, di ciò che mangiamo, e la nostra. Prolungare i profumi, il piacere che queste attività ci regalano, assaporandone tutto il gusto con chi amorevolmente le condividiamo. Fonte: Lifegate, Elisabetta Scuri, foto © Leonardo Usinabia, 21.08.2019