Alghe, insetti e “carne” vegetale: ecco cosa mangeremo nel 2050, quando la popolazione mondiale supererà i nove miliardi e il nostro fabbisogno alimentare sarà cresciuto del 50 per cento
La birra che fa bene alla Terra
Quando negli anni Ottanta i ricercatori agroalimentari iniziarono a preoccuparsi dell’erosione dei terreni causata dall’aratura, proposero subito una possibile alternativa: cereali perenni. Hanno trovato la soluzione in Kernza, cereale di Thinopyrum intermedium, una pianta coltivata per il foraggio. Kernza, le cui radici arrivano a 3 metri, ricresce spontaneamente anche per sei anni di fila e sta lentamente conquistando il suo mercato. A oggi, il prodotto di maggior successo è una birra a base di Kernza distribuita da Patagonia Provisions.
Che cosa troveremo nei nostri piatti nel futuro? Nel 2050, quando la popolazione mondiale supererà i nove miliardi, il nostro fabbisogno di cibo sarà cresciuto del 50 per cento. Come riusciremo a nutrirci senza distruggere le foreste o intensificare l’agricoltura intensiva, che è tra le cause principali del cambiamento climatico? Come manterremo i terreni sani e fertili?
Queste domande ci portano in un campo nebuloso e controverso. Una cosa però è certa, dice LinYee Yuan di Mold, rivista che indaga il futuro del cibo: “Per sfamare nove miliardi di persone serve l’aiuto di tutti”.
Ed è probabile che in molti si daranno da fare per trovare nuove fonti di proteine, dal momento che l’impatto ambientale dell’allevamento animale diventa sempre meno sostenibile: da solo costituisce circa un settimo delle emissioni di gas serra causate dall’uomo. Gli allevamenti intensivi di bovini consumano circa otto volte più acqua e 160 volte più terra per caloria prodotta rispetto a ortaggi e cereali. Non sorprende quindi che le Nazioni Unite invitino a ridurre il consumo di carni rosse, e che le nuove aziende alimentari prendano seriamente questo invito.
Tra loro c’è il produttore di Beyond Burger, un hamburger vegetale le cui proteine provengono dai piselli e la cui colorazione rosso-carne viene dalla barbabietola. Negli Stati Uniti si trova già in 10 mila supermercati e in almeno altrettanti ristoranti e presto dovrebbe arrivare anche in Europa. Il suo rivale diretto è Impossible Burger, un hamburger di origine vegetale che “sanguina” grazie alla presenza di una proteina chiamata eme, ottenuta in laboratorio.
Altre aziende stanno cercando di industrializzare la produzione di carne al punto di rinunciare quasi completamente agli animali. Gli esperti del settore paragonano la coltivazione di carne in vitro a quella della birra, con cellule animali cresciute in colture massicce. “Ricorderà molto un birrificio”, spiega Bruce Friedrich, direttore esecutivo del gruppo industriale Good Food Institute. E se la birra esce da una spina, prosegue Friedrich, “con la carne macinata non sarà molto diverso”.
Nel frattempo gli insetti stanno conquistando una fetta di mercato negli Stati Uniti, non tanto come gli snack esotici della Thailandia o del Messico, ma come mangime altamente proteico o ingrediente di cibi preconfezionati. Dal punto di vista ambientale ci sono evidenti vantaggi, soprattutto per quanto riguarda i grilli, che vantano più proteine e micronutrienti al chilo dei bovini e proliferano in luoghi bui e densamente popolati, consentendone la produzione industriale con un impatto minimo. Producono poi pochissimi scarti, a differenza dei grandi allevamenti di bovini e suini. La texana Aspire gestisce il più grande allevamento di grilli a uso alimentare degli Stati Uniti e ha messo su un’attività fiorente grazie soprattutto alla farina di grilli, impiegata in prodotti da forno, barrette energetiche e frappè. La produzione dei prossimi due anni è già stata interamente prenotata.
Le aziende agroalimentari sono anche a caccia di nuove fonti di grassi. Alcuni ricercatori hanno ottenuto alghe dalla linfa dell’ippocastano, le hanno modificate geneticamente per produrre olio più nutriente e in maggiori quantità e le hanno messe a fermentare con zucchero di canna in silos alti 26 metri. Poi le hanno spremute, ottenendo un olio da cucina leggero e neutro, con grassi monoinsaturi e un punto di fumo elevato, che viene commercializzato col marchio Thrive. L’idea, spiegano i produttori, è ottenere una vera alternativa a prodotti come l’olio di palma, la cui produzione ha causato disastri ambientali e danni sociali. Dichiarano infatti di usare solo canna da zucchero da coltivazioni sostenibili che rispettano l’ambiente e la manodopera.
Altre soluzioni si ispirano alla natura. Dagli anni Ottanta dello scorso secolo alcuni ricercatori americani tentano di sviluppare un cereale perenne che sostituisca specie annuali come frumento e mais, che devono essere riseminate ogni anno impoverendo il terreno e aumentando l’erosione e la dispersione di fertilizzanti nell’ambiente. Agli inizi di questo secolo, lo staff del Land Institute del Kansas, un gruppo di ricerca agroalimentare attento all’ambiente, ha iniziato a coltivare il cereale Thinopyrum intermedium per creare una varietà che rendesse di più, con un seme più grande e più resistente alle malattie.
Oggi il risultato, battezzato Kernza, viene coltivato in 200 ettari di terreno negli Stati Uniti. Diversi produttori agroalimentari statunitensi stanno per immetterlo sul mercato; tra loro anche un rinomato panificio di Brooklyn che propone pane a base di Kernza e un birrificio di Portland, nell’Oregon, che vende una birra di Kernza attraverso il marchio Patagonia Provisions. La speranza è che un cereale più resiliente possa aiutare a generare un’agricoltura più resiliente.
Qualunque cosa ci sarà nei nostri piatti tra 50 anni, il cambiamento climatico ci costringerà a usare meglio le risorse, avvisa l’esperto di alimentazione mondiale Raj Patel. “Il XXI secolo sta iniziando a riconoscere che quelle che prima erano considerate erbacce o specie infestanti possono trasformarsi in cibo”. Fonte: National Geographic, Trace McMillan, novembre 2018