La filiera della produzione alimentare rivendica il proprio ruolo al tavolo del dibattito sui cambiamenti climatici, come vittima e soluzione
La produzione alimentare è responsabile del 34% delle emissioni di CO2, ed è il motivo stesso per cui la filiera del cibo si trova, volente o nolente, ad avere un ruolo cruciale e centrale nel dibattito sui cambiamenti climatici. E non è certo un caso che Slow Food abbia scelto come tema centrale di Terra Madre Salone del Gusto “Food For Change”. Che offre almeno due chiavi di lettura: da una parte ci sono modelli agricoli ben lontani dai principi della sostenibilità impattano in maniera fondamentale sull’inquinamento, dall’altra esempi virtuosi che dimostrano come proprio dall’agricoltura e dagli allevamenti possono arrivare le soluzioni giuste. Di certo, la situazione attuale è responsabile diretta della crisi di intere comunità, come quella degli allevatori del Kenya, o delle comunità nomadi dell’Iran, che a causa della siccità hanno visto crollare i propri modelli, una volta sufficienti a sfamare intere popolazioni, ed oggi sovvenzionati dallo Stato, che ne limita l’autonomia e, in certi casi, persino la libertà.
Ed il futuro non è certo roseo, perché, come ricorda il climatologo e meteorologo Luca Mercalli, “quello di oggi non è il nostro clima usuale, ci sono 6 gradi oltre la media, ed è una situazione che stiamo vivendo ormai da tre mesi, tanto che al Nord Italia è stata la quarta estate più calda negli ultimi 250 anni. La causa del riscaldamento è l’aumento, inedito, di anidride carbonica nell’aria, che in passato non ha mai superato i le 300 parti per milione, un valore che oggi è sopra le 400, ed in crescita costante. Ma la CO2 non finisce solo nell’aria, inquina anche gli Oceani, acidificando le acque e minacciando intere specie marine, oltre a ridurre, ovviamente, il pescato. Nell’ultimo secolo – riprende Mercalli – le temperature medie sono cresciute di un grado, ed è tantissimo. A Torino, per fare un esempio, 9 sulle 10 estati più calde di sempre sono successive al 2002. In Francia questa è stata la seconda estate più calda di sempre, in Scandinavia la più calda degli ultimi 250 anni. Il risultato è lo scongelamento dei ghiacciai, che nutrono i quattro principali fiumi europei, e se questa è la diagnosi, la prognosi è disastrosa: se continuiamo ad inquinare come stiamo facendo ora, a fine secolo le temperature cresceranno di altri 4 gradi entro il 2100: rischiamo l’estinzione, sono troppi in troppo poco tempo. In questo senso, i Governi del mondo non stanno facendo abbastanza, la cura – ricorda il climatologo – è in primis l’applicazione degli Accordi di Parigi, che limiterebbe l’aumento delle temperature globali di un solo grado, ma non è ciò che stiamo facendo, e questo perché non c’è consapevolezza, né a livello politico né sociale. Se ne accorgono però gli agricoltori, ma anche chi soffre la fame, numero tornato a crescere, come rivelano gli ultimi dati della Fao”.
Ma i cambiamenti climatici non riguardano certo solo Continenti a noi lontani, al contrario, “il Mediterraneo e l’Italia – approfondisce Luca Mercalli – sono particolarmente sensibili, la Pianura Padana avanti di questo passo rischia di diventare come il Pakistan. Non possiamo giocare con il fuoco, l’equilibrio della Terra è da sempre fragile, per questo dobbiamo prendercene cura. Dalla glaciazione siamo usciti, ma dal riscaldamento globale rischiamo di rimanere coinvolti per centinaia di migliaia di anni, e dobbiamo capire che siamo noi, spesso, il detonatore di fenomeni climatici devastanti. La nostra reazione, però, è troppo lenta, conosciamo perfettamente il problema da quarant’anni ma non stiamo reagendo adeguatamente, ed ormai di tempo ne abbiamo perso troppo. L’aumento del livello del mare è una minaccia concreta, così come la scomparsa del Delta del Po e di Venezia, ma anche di buona parte del Bangladesh e di metropoli come Pechino. Dobbiamo ridurre l’inquinamento, puntando sulle rinnovabili, anche le Nazioni Unite hanno condannato i Paesi del mondo per il loro immobilismo, altrimenti l’agricoltura sarà la prima a pagare”.
Sicuro del ruolo positivo e risolutivo della filiera del cibo è il delegato di Slow Food Usa, Richard McCarthy, che rivendica un ruolo di primo piano “intorno al tavolo in cui si dibatte del cambiamento climatico: ecco perché a campagna Food For Change, certi temi sono sempre stati sul tavolo e legati al climate change, di cui il cibo è una delle prime vittime, ma anche la prima soluzione, ed è per questo che vogliamo ribadire che il cibo deve stare a questo tavolo. E che il cambiamento climatico riguardi tutti noi, così come che il cibo sia una componente fondamentale della nostra società, per la mia esperienza, è diventato straordinariamente chiaro nel 2005: sono cresciuto a New Orleans, e quando Katrina colpì la nostra città, capii che non vivevamo in un periodo normale. Quando siamo tornati nella nostra comunità, abbiamo visto cose tragiche, persone fragili ancora più fragili, sciacallaggio, non avevamo i mezzi per reagire. In momenti così, di trauma e cambiamento, la gioia del cibo è un antidoto potente, anche in mezzo al disastro”.
Una tematica gigantesca, su cui solo l’impegno di tutti può avere un reale effetto, a partire dall’azione dei Governi, passando però per le abitudini di tutti i giorni, perché ognuno di noi può dare il suo contributo, seppure piccolo, ma sostanziale se si pensa alla moltitudine dei consumatori. Magari rivoluzionando l’approccio al proprio lavoro, come ha fatto Xavier Hamon, a capo dei cuochi di Slow Food Francia. “Rappresento 60 cuochi in Francia, che hanno deciso di affrontare i cambiamenti climatici con il proprio lavoro. A partire dalla progettazione del piatto. Ci siamo dovuti reinventare per tornare ad esercitare la nostra responsabilità – spiega Hamon – e reinventarci in cucina significa dimenticare tutto ciò che abbiamo imparato finora. Vanno ripensate tante cose, ad esempio riducendo la dose di carne in un piatto, e se voglio più gusto dalle verdure devo tutelare la biodiversità. È una questione di libertà, riscoprire i sapori, ridurre le porzioni. E non si tratta solo di questo, ma anche di adattarsi a nuove tecniche, che vengono dal passato, di conservazione della carne, mentre la pesca deve tornare ad avvicinarsi alle coste, e la farina tornerà ad essere centrale, così come il pane. Rivendichiamo di avere un pensiero critico e politico nel piatto, che passa per una cucina alternativa: il cuoco si forma e si immerge nelle zone di produzione, e deve essere capace di ripensare al proprio mestiere. C’è bisogno di energia, di una rete, di un’esperienza condivisa, non che sia facile, ma se vogliamo che questo avvenga, nei nostri ristoranti, dobbiamo formare la persone, e questo ha un costo, ma non tutti possono permetterselo e non tutti hanno i mezzi culturali per capirlo, e questa è forse la cosa che mi fa più arrabbiare. Il paradosso e la deriva – conclude la guida degli chef Slow Food di Francia – è quello di una professione che si impegna in una creatività legata alla tecnologia ed al consumo di energia, noi andiamo in direzione contraria, liberamente, senza sapere bene dove , non vogliamo essere eroi”. Fonte: WineNews, 20.09.2018